The Wonderful Story of Henry Sugar. Benedict Cumberbatch as Henry Sugar in The Wonderful Story of Henry Sugar. Cr. Netflix ©2023

Gestione creativa del narratore e decisi colpi di coda. Abbiamo guardato incantati e con profonda ammirazione gli ultimi lavori dello statunitense Wes Anderson, regista e sceneggiatore anticonformista che viola le regole standardizzate del fare cinema, piega i colori a suo piacimento, produce cortometraggi in controtendenza ai lunghi spropositati, sostituisce la recitazione espressiva con fiumi di parole incalzanti, ma soprattutto rinuncia alla trasposizione totale andando ben oltre la stessa, e infine si diverte, senza alcun dubbio, si diverte come pochi nel fare il suo mestiere. Lo diciamo subito: non parleremo molto di trama e men che meno parleremo di simbolismi, metafore o allegorie (che si rifanno più al contenuto), perché vogliamo soffermarci sulla forma.
I lavori – acquisiti da Netflix – cui ci riferiamo sono in ordine di comparsa: La meravigliosa storia di Henry Sugar (con i suoi 39 minuti è in verità un mediometraggio, ed è stato presentato alla Biennale Cinema di Venezia 2023), quindi Il Cigno, Il derattizzatore e Veleno (di 17 minuti l’uno).
Per non lasciarvi proprio a digiuno: il primo parla della straordinaria storia di un uomo che riuscì a vedere con gli occhi chiusi e bendati; Il Cigno crea impotenza e angoscia, mettendo in scena estremi atti di bullismo subiti da un ragazzino (Anderson inizia ad alzare l’asticella della tensione); ne Il derattizzatore, lo dice la parola stessa, arriva in paese uno sterminatore di ratti, ciò che basta a creare senso di disgusto, ma pare non sufficiente ad Anderson dato che lo sottomette a un climax incalzante (è quello che abbiamo tuttavia meno apprezzato); Veleno è tensione allo stato puro: un serpente mortale si è rannicchiato sull’addome di un uomo costretto a rimanere immobile per non rischiare di svegliarlo facendosi mordere.
Ammettiamo la nostra ignoranza: non avevamo mai visto altri film di Anderson, d’altro canto questi li abbiamo guardati con occhi non di cinefili o cineasti, ma con quelli di chi le storie cerca di raccontarle nella forma scritta; questione di codici. Non per volontà ma per inevitabilità. Anzitutto per il fatto che i quattro titoli sono gli stessi di altrettanti racconti del britannico Roald Dahl (1916-1990), scrittore per l’infanzia, dicono, sebbene a noi vien da paragonarlo all’italiano Buzzati, i cui testi avevano spesso un tale portato disturbante da render quelle «fiabe» ben altro che storielle per bambini. In secondo luogo, per come sono stati tradotti, o meglio per come non sono stati tradotti.

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