Avere dei temi per un regista è fondamentale. Fondamentali sono gli elementi che si ritrovano film dopo film, anche quando la produzione alle spalle cambia e si fa, talvolta, più importante e visibile. Se i temi scivolano via, può essere che si siano trasformati, mascherati in temi altri, oppure che non fossero così fondamentali da dover essere portati avanti nell’opera di un regista. Perché l’opera filmica, dopotutto, non è che un lungo racconto, un’unica lunga narrazione dove i film sono i fili che vengono tirati e intrecciati.
Bene, come inizio forse è fin quasi troppo sensato e ragionato volendo ora scrivere di Quentin Dupieux.
Regista francese nato nel 1974, su Wikipedia viene definito solo da ultimo come «…e regista cinematografico», perché i suoi film non sarebbero gli stessi senza il suo background, e presentground, di DJ, musicista e produttore cinematografico. I beat della musica elettronica da lui prodotta sono parte integrante anche delle scene dei suoi film, inseriti come esatti intercalari fra un’immagine e l’altra.
Se un buon regista lo riconosci dopo pochi fotogrammi, Dupieux, conosciuto anche come Mr. Oizo nel mondo discografico-musicale e divenuto famoso per il pezzo electro Flat Beat, utilizzato per la pubblicità con il pupazzo Flat Eric, rientra sicuramente fra quegli autori cinematografici che hanno creato una firma difficilmente dimenticabile.
Ma parliamo dei suoi film, torniamo indietro ai temi fondamentali. Ci si potrebbe chiedere che valore abbia la logica nella creazione di un film. In quelli di Quentin Dupieux, forse nessuna. Il suo obiettivo principale è di scardinare ogni direzione di senso sfruttando il potenziale assurdo ritrovato anche nella realtà di tutti giorni, soprattutto se estremamente provinciale, di persone/personaggi completamente assorbiti dalle giornate su strade residenziali che sembrano essere state tagliate fuori da una vecchia copertina americana, scolorita e banale. Ma la banalità, qui, prende il suo senso.
Senza voler esagerare, di fronte a Dupieux ho avuto spesso la sensazione, forse in maniera più presente nei suoi primi medio e lungometraggi, di trovarmi di fronte a un film di Jim Jarmusch, senza quella verve esistenzialista, bianco e nera e underground, ma portatrice di un disagio di fondo da dove nasce il bisogno di esprimere in immagini, musica e cultura, qualcosa di difficilmente esprimibile in parole.