Ogni anno, come per un inconscio bisogno di riflessione, intorno al 27 gennaio, diciamo una settimana prima e una dopo, mi ritrovo a riprendere il filo della memoria e tuffarmi indietro nel tempo, lì dove è difficile tornare eppure necessario, dice Primo Levi in Se questo è un uomo. Quest’anno mi sono imbattuto nel film dell’ungherese Ferenc Török, 1945, un’opera dedicata alla memoria della Shoah e ispirata al racconto Homecoming di Gábor T. Szántó.
La sensazione tratta alla fine della pellicola è stata quella tipica di chi ha appena fatto una scoperta. Se dovessi definire in modo stringato questo film, direi che è una intima, prodigiosa riflessione sull’Olocausto e sui destini incrociati di uomini alle prese con il proprio egoismo, nonché con gli inevitabili gorghi dei sensi di colpa in cui esso ci trascina inesorabilmente.
La storia comincia in un’afosa giornata agostana del 1945, a guerra finita, in un villaggio della campagna ungherese, dove, alla fermata del treno, scende una coppia misteriosa e sconosciuta di ebrei ortodossi. Sono un giovane e un anziano, muniti del denaro sufficiente per far trasportare su un carro due casse di legno gravate da una arcana, immisurabile segretezza.
Nel borgo sono in atto i preparativi del matrimonio tra Árpád Szentes, il figlio del podestà e intestatario di una fiorente drogheria, e Kisrózsi, una giovane contadina. L’arrivo dei due ebrei, tuttavia, scuote l’inquietudine di tutti i paesani, in particolare quelli che negli anni e nei mesi precedenti avevano collaborato con i nazisti per la cattura e la deportazione degli ebrei locali nei campi di sterminio. Un sempre più strisciante senso di colpa turba la comunità: perché quei due sconosciuti sono venuti? Non vorranno mica riprendersi le loro case divenute nostre? Non vorranno mica adesso rivendicare il possesso della nostra argenteria? Dei nostri piccoli commerci? «Della nostra drogheria», pensa il podestà, padre del futuro sposo. Una lenta ma inesorabile valanga inizia allora a divorarsi il bosco delle coscienze e la polvere nascosta sotto il tappeto prende la forma di pensieri angosciosi. A latere di questo sommovimento umano c’è l’occupazione sovietica dei territori ungheresi e la minaccia di un nuovo ruvido potere opprimente.
Mentre il terremoto esistenziale prende atto nelle coscienze individuali con il lento passare dei minuti – nel film è molto efficace a mio avviso l’unità aristotelica tra tempo e azione (la vicenda narra quello che succede nell’arco di un paio d’ore) – si viene a scoprire che i due misteriosi uomini, in verità, dovevano solo seppellire nel cimitero ebraico del borgo di campagna quel che rimaneva della famiglia Pollock, uscita, come tante altre, dai comignoli di qualche lager sotto forma di fumo: scarpe, vestitini consunti, libri e poco altro. Ciononostante, quando loro ripartono, ogni certezza è franata: negli abitanti del villaggio le scelte dettate da cupidigia ed egoismo squarciano il velo dell’ipocrisia, il matrimonio inesorabilmente salta e un gran bisogno di fuga e di poesia si impadronisce di Árpád, lo sposo. Una storia d’amore per la verità e di salvezza sembra allora cominciare alla fine del film. La sua partenza con lo stesso treno su cui sono risaliti i due ebrei sa certamente di silenzio e di paura, ma anche di liberazione. E allora, ecco che il mondo nuovo sembra fare meno paura: è come se nello spettatore si dischiudesse un itinerario ideale in cui viene naturale ripercorrere le orme dei giusti che hanno vissuto prima di noi.
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