Esattamente cinquant’anni dopo gli omicidi prodotti e creati dalla mente di Charles Manson a Los Angeles nell’agosto 1969, a mezzanotte inoltrata e dopo oltre due ore e quaranta, si lascia Piazza Grande insieme ad altre più di ottomila persone con la sicurezza e, in un certo senso, la soddisfazione che ti lascia ogni film di Quentin Tarantino. Perché sì, se Tarantino è senza dubbio un regista in grado di raggiungere i gusti di un ben diversificato pubblico, rimane sempre un autore che, nel corso della sua carriera, a più riprese ha firmato opere innovative agli occhi dei più cinefili.
Se devo essere sincera, l’idea di un film sul mondo del cinema hollywoodiano che, quindi, riprendesse tematiche per forza care e vicine a chiunque frequenti o abbia frequentato quel mondo, mi rendeva un po’ scettica. Pensavo che forse non fosse un’idea poi così originale, sebbene trattasse il caso Manson, aprendo dunque ad altre tematiche. Mi dicevo che forse le idee per Tarantino si stessero esaurendo e che molto sarebbe dipeso da eventuali letture fra le righe, interpretazioni e una crescita del film dentro di sé a posteriori (come solo i bei film sono in grado di fare).
Non avevo torto, non avevo ragione, ma di certo è possibile fare alcune riflessioni.

Siamo nella Los Angeles del 1969 e due sono i personaggi principali che seguiamo per l’intero film.
Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) è un celebre attore che vede, nemmeno troppo all’orizzonte, la fine della sua carriera nel cinema Western dell’epoca. Cliff Booth (Brad Pitt) è il suo stuntman ed assistente personale che vorrebbe (e potrebbe) farsi strada in ruoli più importanti ma che sistematicamente resta nel suo personaggio.

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