Alain Tanner. Un nome che ho sempre ritenuto perfetto per un regista e che in maniera permeante ha radicalmente cambiato il mio modo di vedere il cinema. Eppure è un regista che un non così vasto pubblico ricorda tanto quanto il suo collega Jean-Luc Godard.
A buona ragione, diranno alcuni; ma con tutto l’amore per quest’ultimo, non posso ammettere che valga lo stesso per me.

Nel suo lasciarci, quello di Tanner, a pochi giorni di distanza dal forse più acclamato collega, creando un improvviso vuoto siderale nella storia del cinema, vorrei vederci una relazione, anche nella loro fine, fra i due registi, in un legame che potrebbe far scrivere a lungo di due carriere devote ai film, impregnate di fotogrammi, quelli che ancora si potevano toccare, guardare e riguardare, interrompere con un taglio, all’epoca in cui entrambi i registi muovevano i loro primi e successivi passi nell’universo del cinema.

Alain Tanner è stato il mio Godard. Chissà se è una cosa che si può dire o che abbia anche il minimo senso.

Come al solito, la mia attenzione e – si può dire – devozione si rifà – piuttosto che ad un’intera filmografia che avrebbe tutto il diritto di essere scorsa ed analizzata – a pochi, in questo caso tre, film che come mi piace ammettere, per ragioni non così chiare e consce, hanno formato e firmato nel profondo anche il mio occhio ancora acerbo di cinefila.

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