Presentato in apertura della Settimana della critica veneziana, Trois nuits par semaine (Pyramide Distribution) è un’opera prima interessante di Florent Gouelou.
Il film racconta di Baptiste, un giovane fotografo che ha una relazione con Samia, quando incontra Cookie Kunty, una nota drag queen attiva nella vita notturna parigina che immediatamente lo affascina. Inizialmente motivato dall’idea di realizzare un progetto fotografico su di lei, Baptiste entra in questo nuovo mondo e finisce per intraprendere una relazione con Quentin, il giovane che si cela dietro la drag queen.
Il tutto parte da un interesse personale del regista. Membro attivo della scena drag ormai da anni, Gouëlou si affida infatti alla propria esperienza personale per rendere più realista questo mondo fatto di trucchi pesanti, vestiti svolazzanti e pailettes colorate.
E vi riesce piuttosto bene grazie alla sua capacità di andare oltre le luci e l’apparenza di questo mondo ai più sconosciuto. È infatti un viaggio dietro le quinte, quello che intraprende. Dove lo show notturno delle drag queen è alternato alla vita quotidiana di questi ragazzi. Dove il trucco lascia lo spazio all’intimità e alle varie problematiche personali. Il regista ci introduce in questo universo con grazia e sensibilità attraverso, appunto, una storia d’amore. In particolare, seguiamo le orme di Baptiste e grazie a lui entriamo a poco a poco nell’universo delle discoteche e nei sentimenti dei ragazzi.
Il tutto viene immerso in uno scenario nel quale non mancano le battute volgari e le violenze nelle strade della grande città.
Ottima e convincente la prova attoriale degli attori: Pablo Pauly (Baptiste) ha un’innata timidezza nelle movenze e negli occhi che lo accompagna nella prima parte del film. Mentre Romain Eck (Quintin) lo completa con una sicurezza e una dolcezza che traspare anche grazie al trucco di Cookie.
Si potrebbe anche accennare all’importanza data da questo mondo all’immagine e quindi all’apparenza, rispetto all’essenza, non è un caso che il protagonista sia un fotografo. Ma, alla fine, quel che ti resta aggrappato, è soprattutto un normale desiderio di esprimere sé stesso.