Emilie Bujès, artistic Director of festival Visions du Réel (in Nyon-VD)

Dal 12 al 21 di aprile è in programma la 55esima edizione di Visions du Réel. Il festival di Nyon dedicato al documentario si è ritagliato, negli ultimi tempi, uno spazio importante nelle rassegne nazionali ma non solo: è infatti considerato tra i più importanti a livello internazionale. Una rassegna che presenta, come sempre, molte prime nazionali e internazionali e che vedrà tra gli ospiti registi importanti e con una visione precisa e particolare del mondo. Con la direttrice del festival Emilie Bujès abbiamo voluto mettere in evidenza gli aspetti rilevanti di questa edizione.

 

Direttrice Bujès come mai ha scelto il titolo L’occhio del ciclone per definire la rassegna di quest’anno?

Credo ci sia un doppio significato. Il primo è legato al momento in cui si sceglie il titolo che è un periodo particolare del pre-festival perché si è immersi in un vortice, in un ciclone appunto di emozioni, lavori, preparativi, ecc. In secondo luogo, è legato alla situazione mondiale attuale. Viviamo in un periodo storico molto intenso e che assomiglia appunto a un ciclone e visto che il nostro è un festival strettamente legato alla realtà e all’attualità, ci sembrava un titolo adeguato.

 

Avete ricevuto 3’300 film, in aumento del 10% rispetto all’anno scorso. Come spiega questo incremento?

Non è semplice spiegare le ragioni di questo aumento. È indubbio che ci sia una crescita di registi desiderosi di realizzare documentari, come si può osservare anche dalla presenza nei vari concorsi in altri festival (n.d.r. lo dimostra anche il recente documentario Dahomey di Mati Diop vincitore a Berlino). E probabilmente e più prosaicamente ci sono anche molti documentari che furono interrotti durante la pandemia è che sono stati terminati negli ultimi mesi. In aggiunta a ciò, posso anche dire che abbiamo ricevuto molti film ucraini, a dimostrazione del fatto che c’è stato un notevole slancio culturale e cinematografico e un grande desiderio di raccontare quanto sta succedendo in quel Paese.

 

Si osserva anche una forte presenza dei documentari della Svizzera tedesca. È una nuova tendenza?

Non so se si possa parlare di tendenza vera e propria perché dipende molto dalle annate. Abbiamo voluto evidenziare questo aspetto perché volevamo sottolineare il fatto che il nostro è un festival svizzero e non solo romando. Sappiamo bene che nel nostro Paese non sempre è facile mettere in relazione le varie regioni linguistiche, ma noi vogliamo davvero essere una rassegna nazionale a tutto tondo. Inoltre, mi preme sottolinearlo, sono film molto interessanti e forti e che abbiamo inserito anche nelle competizioni internazionali e che quindi sono in gara anche con i documentari provenienti da tutto il mondo. E aggiungo un altro concetto; il gran premio della giuria con While the Green Grass Grows, è l’ennesima conferma che il documentario svizzero può tranquillamente competere a livello internazionale.

 

Come è la presenza della Svizzera italiana?

La Svizzera italiana c’è a Nyon e posso dire che nelle diverse competizioni abbiamo due coproduzioni: Going South di Alan Sahin (Cinédokké ) e Muzungu di Ben Donateo e Michel Passos Zylberberg (Associazione REC).

 

I tre invitati di quest’anno sono Alice Diop, John Wilson e Jia Zhang-Ke. Cosa rappresentano per il festival?

Sono sicuramente importanti per raccontare una storia collettiva e diversa da quella che avrebbero raccontato da soli. Alice Diop è da molto che desideravo poterla accogliere ed è una regista che lavora in uno spazio politico e cinematografico molto interessante passando con agilità dal documentario alla fiction. Jia Zhang-Ke è una figura importante del cinema mondiale; un regista molto prestigioso e che si concede raramente ai festival. Infine, abbiamo invitato John Wilson per aprire il festival a un format seriale, che secondo me, è molto interessante e rappresenta un modo di produzione diverso da quello della realizzazione di film. Non dimentichiamo che all’inizio della sua carriera aveva realizzato alcuni cortometraggi che portavano, in qualche modo, già alla serialità.

 

Lei è direttrice di Visions du Réel dall’edizione del 2018, e ha vissuto in prima persona diverse edizioni, comprese quelle complicate della pandemia. Ha mai pensato di lasciare il festival in altre mani?

Sono molto attaccata al festival, anche perché prima di diventare direttrice, ero già nella programmazione. Ed è vero che le edizioni durante il covid sono state diverse e per me anche più complicate e difficili di quelle normali. Detto ciò, è vero che sono passati diversi anni e che la domando me la sono già posta. Non ho ancora deciso quando lasciare, ma credo che tra non molto tempo sarà necessario un rinnovamento.

 

C’è un titolo che le è rimasto nel cuore in tutte queste edizioni?

Difficile rispondere e dare un titolo solo. Sicuramente i due film di Peter Mettler dello scorso anno mi sono rimasti impressi, così come Homland di Abbas Fahdel e Touch Me Not di Adina Pintilie. Ma come tanti altri di ogni edizione.

 

Quest’anno nella competizione internazionale intravede delle tendenze?

I film di quest’anno sono molto originali e lavorano sulla forma e l’approccio che permette di trascendere il soggetto che filmano. Vedo un grande sforzo per cercare una forma che possa permetterci di immergerci in una realtà cinematografica originale. Per esempio, nella competizione internazionale Lungometraggi, Fragments of Ice è una storia di famiglia raccontata interamente con materiale d’archivio. The Song of Others è un film d’essai sul significato d’Europa, mentre The Landscape and the Fury è un’opera più pittorica girata alla frontiera serbocroata che mostra il percorso dei rifugiati. Rising Up at Night, girato in notturna in Congo parla dell’attesa dell’elettricità e quindi della luce. Altri film tendono verso la fiction come To Our Friends. Stessa cosa, ma con un tono più cinefilo è The Return of the Projectionist. Abbiamo anche un western sui generis: Where the Trees Bear Meat ambientato in un luogo secco e con gli animali che non hanno abbastanza da bere e un altro film intitolato Far West ma che non ha a che fare col genere, girato a Capoverde e dedicato a un villaggio di pescatori. Apple Cider Vinegar è un’opera originale che si concentra sul percorso dei calcoli renali con un tono leggero e una voce off. Mother Vera è un ritratto di una donna bielorussa dal passato oscuro in un monastero, che ricorda grandi registi come Dreyer e Tarkovskji. Con Okurimono accompagniamo una donna a Nagasaki dopo che se ne è andata 20 anni prima. Infine, abbiamo In Limbo, la storia di Alina, durante l’invasione russa in Ucraina e My Memory Is Full of Ghosts, un ritratto della vita di Homs in Siria e di quel che resta dopo la guerra.

 

Gli spettatori dello scorso anno furono 47mila. Quali gli obiettivi di quest’anno?

La speranza è sempre quella di aumentare il pubblico, quindi sarebbe molto bello per noi incrementare quella cifra. Comunque, abbiamo anche, per chi non ha la possibilità di venire a Nyon, la possibilità di poter vedere una cinquantina di film online.

Per altre informazioni e per i biglietti www.visionsdureel.ch.