L’idea di questa rubrica, che terrò aggiornata come il volo degli storni sul cielo di Roma, ovvero con bracci e maglie che si allargano e si stringono, appaiono e scompaiono a seconda del vento e della stagione, è molto semplice, ai limiti del domestico Mi è venuta durante i cammini raminghi di sala in sala durante il 76º festival del cinema di Locarno: parlare dei pensieri dietro una o due scene di determinati film; raccontare di quello che il film non dice ma ispira; delle storie che si irradiano dietro le luci e i corpi degli attori. Insomma dire poco o niente del film – a parte i dettagli essenziali – e molto di quello che il cinema irradia in noi, uomini del presente.
La prima storia parte dal Gran capeón, proiettato il primo giorno del festival al Kursaal. Regia: Chano Urueta; anno: 1949. Paese: Messico. Film a tratti imbarazzante per la cifra amatoriale degli attori: basti tener presente che Luis Villanueva Páramo – il boxer di cui si narrano le gesta sul ring, campione realmente esistito e osannato dal popolo messicano negli anni che vanno dal 1º settembre 1929 (giorno del suo esordio sul ring) al 3 febbraio 1961 (giorno in cui chiuse la sua avventura sportiva) – è interpretato da lui stesso, in arte Kid Azteca. I pregi del film risiedono nel suo valore documentaristico, anche se dal 6º round in poi, diciamo a poco più della metà della pellicola, il ritmo sale, certamente anche grazie al tocco noir che il regista ha voluto dare alla storia. Detto questo, il mio lavoro potrebbe essere finito e, in tutta onestà, non credo che risulterebbe così irrinunciabile. Molto meno scontato (e mi scuso in anticipo sulla spocchia e la boria che se ne possono dedurre, ma vi giuro che non sono note che stanno nelle mie corde, che ci crediate o no…) mi sembra invece il racconto che mi sono figurato nella testa durante l’ultimo quarto d’ora del film. Dico quando Kid Azteca le suona al pugile statunitense di origini filippine. Il miracolo lo hanno fatto le riprese del ring, l’efficace sovrapposizione dei fotogrammi dei due pugili con le urla degli astanti, e la luce opaca del bianco e nero del 1949.
Il suo lavoro l’altro lo faceva, ma in quella torrida sera di agosto era Kid Azteca che avrebbe rovesciato il destino, questo era chiaro. Nei suoi occhi secchi e sghembi come le fessure di un formicaio aveva il cuore pieno di cemento, malta e pietre. Come in una betoniera a gasolio i materiali più impensabili si stavano mischiando per formare una malta a prova di valanga, e i ganci del campeón avrebbero inevitabilmente preso la consistenza dei sassi, la pesantezza dei mattoni. Certo, Kid a vederlo non era forte né alto né con ossa grandi e muscoli lunghi; ma chi ha visto Toro scatenato di Scorsese sa che sul ring conta di più la capacità di sfruttare quel che si ha, fossero anche solo i nervi delle braccia e la tigna delle mani. L’altro, di fatti, dopo i primi round passati in scioltezza, inizia piano piano ad affrontare il ring con terrore, come un facchino incerto su una scala traballante con il peso morto di otto valigie sulle spalle, la faccia viola, gli occhi strabuzzati e la carotide gonfia come il petto di una fregata delle Galapados nella stagione degli amori: dio che schifo che mi produce quell’uccello quando fa il ballerino davanti alla femmina da concupire! All’ennesima smorfia di dolore del texano ho pensato che sarebbe morto, ma ecco la campana dell’ultimo round che suona e l’arbitro che va a raccogliere il verdetto dei giudici di gara.
«Ecco fatto», ho immaginato che dicesse Kid Azteca. In realtà nel film non dice un bel niente: sta zitto con le sottili fessure dei suoi occhi pennellate sopra due gote spigolose e stremate. Io però l’ho pensato e per questo ve lo dico. E ho pensato pure a chi lo dicesse. Non lo diceva né a me né agli altri spettatori, né tanto meno a sé stesso. Lo diceva a Dio.
Fino a quel momento il film era stato interminabile, a momenti sfiancante: qualcuno in sala si era già alzato, qualcun altro pareva un operaio nel capanno degli attrezzi pronto a lasciarsi andare in un sonno senza rimedio, magari tenendo un panino con la frittata nella sua mano esausta. Invece no, il film (su e con Kid Azteca) ha fatto la sua mossa e mi ha snoccciolato la sua.
«Basta per oggi», mi sono detto, anche perché ero appena tornato da Tesero, sulle Dolomiti, e quello era stato solo il mio primo film del festival. Il giorno dopo ne avrei visti cinque. Tempo ce n’era. Ce n’è. A presto!