Regia: Fernando Méndez; anno: 1951; paese: Messico. Film restaurato grazie all’interessamento di Guillermo del Toro, noto sceneggiatore, produttore cinematografico e scrittore messicano.
La divagazione di oggi calca la polvere di un barrio messicano, dove il playboy Roberto (detto el Suavecito) fa quel che vuole con il cuore di Lupita. Oltre alla sua dedizione al gioco d’azzardo e alle donne, si atteggia da gangster pur non avendone la spietatezza. Nel suo cuore, in un angolo remoto di esso, alberga l’onestà e la dignità. Il film è una commedia con netti tratti noir che gli danno una felice brillantezza, soprattutto nel finale. Fin qui tutto giusto. All’inizio del film, però, nella primissima scena, quando un venditore ambulante di pane entra nella piazzetta su cui si affacciano sia la casa di Lupita che quella di Roberto, nella folla dei ragazzini e delle massaie che assediano il pover’uomo con la cesta dei pani sulla testa, io mi ci sono visto all’improvviso. Ero tra quei furfantelli, sporco di polvere e baciato dal sole. Guardando il film reale, nella mia testa si autonutriva una storia tutta nuova che si intersecava con quella dei personaggi.
Sua madre Chole, dico la madre di Roberto, una dignitosissima anziana di ottant’anni appena compiuti, poteva allontanarlo senza preamboli dalla casa, ma il fatto che era l’unico suo legame col passato le rendeva la scelta troppo lacerante. E poi, onesti o meno che fossero i suoi soldi, erano gli unici che entravano da quella porta. Gli unici che come per magia si materializzavano nelle mani di suo figlio per uova e pancetta, pane e regali extra di compleanno. Insomma el Suavecito era anche un fatto economico per lei; e i fatti economici della vita – è notorio – vanno accettati. Io in quel barrio mi ci sono visto in pieno: ero uno dei tanti mocciosetti che accorrevano al passare del panettiere con una cesta colma di tortillas appena sfornate. Avrò avuto sì e no undici anni. Mio padre Luis, che in gioventù, prima di conoscere mia madre, faceva parte degli accoliti di Roberto, a quel tempo era l’ebanista capo di una grossa falegnameria in periferia, a 16 km dal barrio, dove altre fabbriche sorgevano e altri cantieri. Molti ragazzini della mia età erano già di mestiere da quelle parti ed io ero uno di loro. Facevo parte della squadra di mio padre – portavo gli attrezzi nelle nuvole di trucioli, segatura e residui di sottilissima risma. Il mio lavoro consisteva nello scivolare tra la polvere e comparire come un angelo dal nulla, dritto davanti all’operaio che mi aveva chiesto l’attrezzo. E l’attrezzo era sempre giusto: sgorbie, cacciaviti, lame, seghe circolari (a dentelli fitti o larghi), coltelli da intaglio, martelli, mazzuoli, punzoni: di tutto, insomma. Per ogni attrezzo c’era una cassetta e ogni cassetta andava poi riposta nello scaffale giusto. A dispetto del disordine creato dagli operai, io dovevo tenere la stanza degli attrezzi sotto costante revisione. Sull’impalcatura i miei occhi verdi erano come luci a infrarossi. Era un lavoro di cui andavo fiero. La sera, tornando nel barrio, mentre il sole scendeva, sentivo sulle tempie il gusto del ritorno a casa e il piacere per il fresco dell’ombra nella veranda a piano terra, giusto di fronte alla porta di Suavecito. Chi capitava in falegnameria non mancava di darmi un’occhiata benevola mentre mi incamminavo lì dove una voce mi chiamava. Ed io guardavo dritto davanti a me con spavalderia, specie quando mi inerpicavo su per la scala di alluminio, tenendo la cassetta degli attrezzi stretta nella mano sinistra, mentre la destra faceva da arpione lungo i montanti della scala stessa. Spesso arrivava a salutarmi qualcuno dei miei amici, che magari lavorava in un cantiere vicino o in un’altra fabbrica; allora io lasciavo la presa e lo salutavo con temeraria baldanza.
Quando a mezzogiorno Suavecito si svegliava dopo le sue notti brave e alcoliche, e Lupita, per l’ennesima volta, delusa, rimuginava sul suo amaro destino, io avevo il privilegio di pranzare con tutta la squadra di falegnami: avevo la mia pietanziera personale e tutti mi trattavano proprio come se fossi stato un adulto. Da grande sapevo cosa fare, anche se un occhio a Suavecito l’ho sempre dato. La sua spensierata spacconeria, mescolata alla bontà dei suoi sguardi quando mi incrociava nel vicolo dietro casa, mi indicava tutta un’altra via. A pranzo si parlava di calcio, pugilato, macchine da corsa e carte. Si parlava anche della bisca dietro il salone del locale chic in cui Suavecito faceva il buono e il cattivo tempo pur non avendo le credenziali per farlo. I veri duri erano altri e quelli sì che facevano veramente paura. Avevano la pistola e sparavano.
La sera, nel letto, prima di addormentarmi, me lo immaginavo lì dentro mentre, accendendosi una sigaretta con un accendino cromato, monopolizzava la conversazione. Cominciava con una frase del tipo: «La sapete quella del giocatore di biliardo di Acapulco e delle tre sgualdrinelle?».
La sua voce, danzante e furfantesca, richiamava subito l’attenzione. Poi c’era una pausa esagerata, condita da uno sguardo beffardo in alto, al lampadario di cristallo, e il fumo iniziava ad avvolgere le sue parole. E con esse il mio sonno nella mia stanza che aveva una finestra sulla piazzetta del barrio, difronte alla porta di casa sua. Allora mi addormentavo facendo l’altalena con i miei pensieri: alcuni ritornavano a un mucchio di sabbia nell’angolo in fondo alla falegnameria o a una catasta di legna (in quel momento, digrignando i denti, davo ragione a mio padre sul fatto che Suavecito era solo un poco di buono), altri ritornavano nel salone in cui Roberto raccontava le sue storiacce. Allora irrompeva lo scoppio di risate degli astanti al tavolo del locale chic, dopo la battuta sconcia finale.
Nella testa di chi guardava ieri con me il film della retrospettiva messicana nello storico cinema Rex di Locarno, sono sicuro che si muoveva la stessa altalena di pensieri. Suavecito lo perdoni e poi torni a detestarlo, proprio come Lupita. Io, per quel che mi riguarda, a dirla tutta, durante l’ultima scena, quando caricano Roberto sull’ambulanza, un po’ già sentivo la nostalgia per quella mia vita da pischelletto. Così lontano. Così perso nel Messico degli anni ’50! Ma poi ecco i titoli di coda (mai alzarsi durante il loro scorrere: quanta pressappochezza in giro di questi tempi!). Luci.
Foto: Archive of the Mexican Film Institute