Da bambino confondevo la vita con i romanzi di avventura. Il confine tra la realtà e l’immaginazione era sfumato: leggevo Salgari, Verne, Bonelli, mi avvolgevo nelle storie come in una coperta. E mi preparavo a navigare al largo di Capo Horn, a cavalcare nelle praterie, a venire allevato dai lupi o a difendermi dagli strangolatori thugs. Qualche anno dopo, visto che nessuno tentava di strangolarmi, cominciai a rendermi conto che la vita era una faccenda diversa. La mia quotidianità non prevedeva l’abilità nel maneggiare un kriss malese, né la capacità di usare l’astrolabio per tracciare una rotta nei mari del sud. Tutte le mie nozioni su come sopravvivere a un naufragio su un’isola deserta si rivelarono pressoché inutili per affrontare una giornata di scuola.

Certo, i naufragi avvengono anche nella quotidianità, ma in maniera più insidiosa, più straziante. Mi resi conto che i romanzi potevano confortarmi nelle circostanze difficili. In un certo senso, il me stesso adolescente raggiunse la consapevolezza del me stesso bambino, in maniera un po’ più tortuosa. I romanzi d’avventura non sono slegati dalla vita, non consistono in una pura evasione. Come tutte le storie, sono un modo indiretto per rappresentare il mistero e le contraddizioni degli esseri umani.

«Il suo stesso essere nel mondo è per ogni essere umano il miracolo e l’enigma davanti a cui si trova posto e che costituisce l’inquietudine della sua esistenza». Queste parole del filosofo Eugen Fink illustrano bene il concetto. È ingannevole considerare la vita quotidiana come stabile, assodata, sicura. Se i romanzi e i film di avventura servissero anche solo a mantenere desta l’inquietudine, ci renderebbero un immenso servizio.

Ecco perché, quando apro un libro come Scaramouche (Donzelli 2009), percepisco che sta parlando (anche) di me. È una vicenda di cappa e di spada ambientata nella Francia del XVIII secolo. Il protagonista André Moreau intraprende un cammino rischioso per vendicare la morte del suo migliore amico. Alla fine, come accade sempre nelle buone storie, finirà per trovare altro rispetto a ciò che s’immaginava.

L’autore Rafael Sabatini nacque in Italia nel 1875 e morì in Svizzera nel 1950. Di padre italiano e madre inglese, poliglotta e viaggiatore, fu un cittadino britannico e scrisse sempre in inglese. La sua vivacità stilistica si ritrova nei due film tratti dall’opera. Il primo venne girato nel 1923, appena due anni dopo l’uscita del libro: è un film muto, con la regia di Rex Ingram e Ramon Navarro quale protagonista (lo stesso che nel 1925 interpretò Ben-Hur). Il secondo risale al 1952 e venne diretto da George Sidney, che era uno specialista di musical. Gli attori infatti si muovono con una leggerezza che non capita spesso di vedere nei film d’azione. Uno degli aspetti che mi commuove è proprio questo incanto, questa grazia nell’esserci, nonostante le difficoltà. Questo afferrare la pienezza dell’istante. Al di là degli aspetti psicologici (sottotraccia, il film sviluppa una riflessione sui legami di famiglia) o sociali (la storia dei personaggi incontra la grande Storia, con lo scoppio della Rivoluzione francese), o filosofici (affiora il tema del doppio e della ricerca d’identità), la forza del film per me è soprattutto nella sua eleganza.

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