Iago e Otello a Roma sono uguali a quelli di Venezia. I quasi 400 anni, dal 1º novembre 1604 (anno della prima rappresentazione shakespeariana) ai giorni attorno all’11 settembre 2001 (anno in cui il regista ha adattato l’azione del suo film), sembra non siano mai passati. Il romanesco al posto dell’inglese? Poca cosa. Quasi quasi, anzi, sarebbe stato più credibile in italiano: non riesco proprio a digerire l’idea di far passare le parole di Shakespeare dalla bocca di una banda di balordi criminali di Ostia, sul litorale romano. A parte questo, tutto torna nel film di Edoardo Leo, Non sono quello che sono, visto ieri in piazza Grande. All’inizio, quando Iago cammina con Roderigo sotto i portici di Piazza Vittorio (ci ho vissuto tanti anni da quelle parti…) e decidono di spaccare la testa di un povero beccaio che non poteva pagare la tangente, devo ammettere che ho avuto un momento di confusione: non riuscivo a rintracciare i fili del discorso del Bardo di Avon. Poi però tutto si è messo in linea dritta, scivolando come in toboga su una pista innevata. Iago e Otello si perdono ma anche no: da qualche parte di quel mondo di avanzi di galera si dovevano pur ritrovare. La maggior parte dei loro accoliti sono piccoli, anche se due, gli zii di Desdemona, quando arrivano sembrano assumere le fattezze di uomini se non proprio giusti, certamente al di sopra delle parti: bella la decisione, ad esempio, di lasciare Iago legato con le manette a Otello, dopo che questi si era fatto saltare le cervella sulla spiaggia. Bella anche l’idea del regista di farci raccontare la storia da Iago attraverso una confessione autonoma rilasciata nella stanza della direttrice di un carcere senza nome. Dare a un tipo così un indirizzo preciso, un nome al luogo in cui si trova a consumare quel che resta dei suoi giorni, è un privilegio che nessuno gli accorderebbe. Shakespeare anche lo lascia vivo, ma le dinamiche sono diverse: Otello, prima di pugnalarsi a morte sul corpo di Desdemona, lo accoltella ma non fino in fondo, condannandolo a vivere il resto della sua vita nel dolore, da mentecatto  quale è. Sono inezie le varianti, che tuttavia non cambiano niente all’effetto dirompente della storia sul pubblico, sia esso fatto di uomini e donne del 1604 sia esso composto di cinefili internazionali seduti in Piazza Grande nel 2023, alla 76ª edizione del Festival del film di Locarno.

Delle piccole cose che girano in tutte le storie di gelosia e vendetta, il fazzoletto originale è stato trasformato in un velo mediorientale e le spade e i pugnali in pistole. Le parole di Iago, però, provocano lo stesso effetto anche in bocca al malavitoso che lo impersona: l’odio verso di lui che serpeggiava ieri sera in Piazza Grande era un sentimento esteso, universale e condiviso. Iago odia e va odiato. Mi viene in mente una massima sottesa nell’Ulisse di Joyce che più o meno conferma questa teoria. La vita è come un’eco: ciò che essa ti rimanda non è altro che quello che tu stesso hai inviato ad essa. Insomma, Iago lo odi. Punto! Non tanto per la sua cattiveria quanto per la sua volgarità umana, una disonestà che, parafrasando le sue stesse parole a proposito della gelosia, gli si rivolta contro come «un mostro con gli occhi verdi che sputa su quello che mangia». Le storie vere come questa non hanno bisogno di niente per essere ritrovate intatte, pure, pungenti come lame affilate. Sono apparentemente perse, apparentemente lontane da noi, uomini del presente; ma in realtà sono dove sono e molto probabilmente non se ne sono mai andate.

Niente da dire a una serata così. C’era una bella aria fina, un certo freschetto ieri sera in Piazza Grande. Addosso mi ci stava a pennello il giubbotto a vento che avevo prudentemente riposto nello zainetto.

foto: Andrea Pirrello