di Simona Magnini

È un pomeriggio di sole giaguaro. Incontro il regista di Lousy Carter, Robert Byington, e l’attore protagonista David Krumholtz (Carter, appunto) nel caffè che offre una posizione privilegiata sul mega schermo della Piazza Grande di Locarno, piazza punteggiata di sedie gialle e nere a macchia di leopardo — l’icona simbolo del Festival.

«Sono di cattivo umore» dichiara subito il regista tendendo l’atmosfera. Byington non intende dare spiegazioni in merito, ma probabilmente è rimasto amareggiato dalle recensioni americane alla prima del film, avvenuta appunto qui a Locarno lo scorso 9 agosto, giorno prima dell’intervista, che avviene poche ore dopo la diffusione delle recensioni fatidiche.

La storia è quella di un professore universitario, il Lousy Carter del titolo, a cui il medico annuncia che ha solo sei mesi da vivere. Alla notizia, però, il protagonista non si avventura per sentieri rivoluzionari, apocalittici o salvifici, anche se prova comunque a dare un po’ più di senso alla sua mesta esistenza, che ha un finale piuttosto inaspettato. Il punto però non è questo, evidentemente.

L’etichetta del film sei-mesi-da-vivere sta stretta al regista, visto che il film si rivela anche una riflessione in sordina sul rumore della lingua ai nostri giorni e, visto il portato autobiografico che si svelerà nel corso dell’intervista, è comprensibile il rammarico del regista a fronte di una reazione piuttosto tiepida della critica, o forse per non essere stato compreso appieno.
Come si leggerà nell’intervista, la difficoltà di comunicare è centrale al messaggio del film e, ironia, è una caratteristica del regista stesso, che oggi infatti si presenta stizzito.

L’attore principale, Krumholtz, cerca di rassicurarlo: «Su, te la sei cavata bene fino ad ora».
Dopo questa ammissione, incredibilmente, sembriamo tutti meno tesi e lo stesso Byington appare visibilmente più a proprio agio. Potere della schiettezza? Avvio l’intervista. Ne riparleremo.

Robert Byington, il film parte con un ritratto fotografico del protagonista al suo funerale e in sovrimpressione appare una citazione dal capitolo di apertura de Il grande Gatsby, il capolavoro di Francis Scott Fitzgerald: «Se la personalità è una serie ininterrotta di gesti riusciti, allora c’era qualcosa di formidabile in lui, una forma di sensibilità spiccata verso le promesse della vita…un dono straordinario per la speranza». Ci spieghi perché l’ha scelta.
Ho sempre avuto una predilezione per quella citazione e per la descrizione di Gatsby. Il produttore non la voleva e infatti abbiamo avuto versioni del film con e senza quella frase. Alla fine l’ho avuta vinta io. Per me il film risponde a delle domande: come si comporta Lousy Carter in tutte le situazioni in cui si trova? Come comunica? Come ascolta? Visto che qualcuno pensa davvero che Carter sia lousy [che in italiano significa un fiasco, ma anche uno schifo], la citazione a inizio film serve a darne un ritratto, anche se è un ritratto all’inverso, ironico. Non solo: la citazione per me è anche un tributo a David [Krumholtz]. Lo conosco da anni e so bene come ascolta e come comunica. Quella citazione per me è anche una riflessione sul suo modo di essere attore e su come lo vedo interagire col mondo. E anche se il narratore del romanzo [Nick Carraway, nel romanzo di F.S. Fitzgerald] a molti pare sarcastico nel rapportarsi a Gatsby, io invece credo che non lo sia, infatti più avanti nel libro Nick dice a Gatsby che vale «più di tutta quella manica di gentaglia messa assieme.

Perché il produttore voleva omettere la citazione?
Diceva che non dava il tono giusto alla storia, ma comunque dovreste chiederlo a lui: Chris [Christopher Shea] è un comunicatore di grande forza. Invece per me il tono viene dalle parole e dalla sceneggiatura. Anche il lavoro di editing ha dato corpo al tono del film: siamo partiti da 105 minuti per arrivare agli 80 finali. Nella brevità Kaurismäki ha fatto scuola e io sono un fan del regista finlandese. La fiammiferaia [di Aki Kaurismäki] dura esattamente 68 minuti.

 

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