Ogni tanto ci ritroviamo in questi non luoghi che sono gli aeroporti e mentre aspettiamo il nostro volo, curiosando in un’edicola ci capita per le mani qualche libro interessante. Così è stato un paio di anni fa quando, all’aeroporto di Atene, ho acquistato Indignation (Indignazione), uno degli ultimi romanzi di Philip Roth. È la storia di un ragazzo, Marcus, che nel 1951 viene mandato dalla famiglia in un college estremamente rigido dell’Ohio. Marcus è un ragazzo brillante e sveglio, sensibile e determinato, un carattere che lo porta a scontrarsi con situazioni e persone che limitano il suo spirito indipendente, ma anche ad innamorarsi di un’affascinate e misteriosa compagna di corso.
Qualche mese fa ho visto il film omonimo tratto da questo libro, diretto da James Schamus nel 2016. Una trasposizione sicuramente riuscita, in modo particolare per quel che concerne la scena centrale, quella in cui Marcus viene convocato nell’ufficio del preside del college per uno screzio avuto con il compagno di stanza, a seguito del quale Marcus chiede di essere trasferito in un’altra stanza. Il confronto con il preside, che si mostra molto affabile nel tentare di convincere Marcus a trovare un compromesso, genera tensione e alimenta in modo esponenziale l’indignazione di Marcus, che non ci sta, e che per nulla al mondo vuole cedere ai tentativi di persuasione del preside. In questa scena si concentra, tanto nel libro quanto nel film, tutto il disagio esistenziale di Marcus: il male di vivere allora si esprime nel malessere fisico, e si coagula in un’esperienza dove non ci sono più parole per mediare la relazione con il mondo.
Di fronte alla nausea che dilaga dentro di lui, Marcus non può fare altro che vomitare nell’ufficio del preside. Quella scena tanto intensa, che il potere delle immagini filmiche rende ancora più vivida, mi ha ricordato un altro romanzo, un’altra deriva esistenziale, quella del giovane Holden in Catcher in the Rye. In entrambi questi personaggi -Marcus e Holden- ho ritrovato quello stesso indimenticabile malore universale. Quello stesso disagio, sotterraneo oceano di angoscia in cui tutti noi, chi più chi meno, ci siamo specchiati.