Finalmente ci si emoziona qui a Cannes. Wildlife, l’opera prima di Paul Dano, che i più si ricordano in vari film, ma davanti alla macchina da presa, come in Little Miss Sunshine, ha fatto centro. Presentato in apertura de La Semaine de la critique, il film è la trasposizione di un romanzo di Richard Ford e racconta lo sgretolamento di una famiglia americana, negli anni 60. Lo fa in modo semplice, con pochi fronzoli e ancor meno autocompiacimento. Sceneggiato con la nipote di Elia Kazan (Zoe Kazan) – anche compagna di Dano, nella vita – è di una linearità disarmante (costruita soprattutto sui primi piani dei loro volti, ma anche con i fuori campo, dove lo spettatore non vede ma capisce) e di una forza altrettanto potente. Il Montana, le sue lunghe strade, i suoi boschi, la neve, gli incendi e la gente di poche parole, sono il giusto contorno a questa storia ambientata in periferia, ma che ci riguarda. Tutti.
La commovente prova di Carey Mulligan (sui livelli de Il Grande Gatsby, anzi forse è addirittura la sua migliore interpretazione) oltre a quella rude e velleitaria di Jake Gyllenhaal, e al convincente e giovane australiano Ed Oxenbould, insegnano che basta una bella storia e un’ottima recitazione per fare un grande film.
Ci sono dei momenti molto toccanti durante l’ora e 44 minuti della pellicola. Ma ancora più toccante, almeno per chi era nelle prime file e ha potuto scorgere dei piccoli, ma significativi gesti, è stata la presentazione in sala: presenti lo stesso regista e la compagna. Visibilmente emozionata, quest’ultima, con una mano teneva quella del compagno e con l’altra il braccio, in cerca di protezione davanti a noi, spettatori e soprattutto giudici della loro opera. Noi che abbiamo finito di guardare il film con gli occhi lucidi, gli stessi che avevano i tre protagonisti nell’ultima scena. E con questo spero di non svelare nulla, ma di farvi venire la voglia di vederlo appena arriverà nelle nostre sala.