Quando c’è da dire che una cosa ti ha fatto bene e ti ha fatto piacere non rinunciare a dirla. E allora eccomi qui a celebrare Spike Lee, lo dico subito. L’ultimo suo lavoro presentato in concorso sulla Croisette, è stato un toccasana.

Lui, da quando ha iniziato a far film (ricordiamo che è stato scoperto a Locarno) ha sempre trattato uno solo tema, declinandolo in mille modi diversi e cioè lo sfruttamento dei bianchi sui neri e la progressiva presa di coscienza dei secondi. Anche in questo film non si discosta dal suo mantra. E mette in scena la storia di Ron Stallworth, resa pubblica negli USA nel 2006, un ufficiale di polizia nero a Colorado Springs nel 1978, che riesce a infiltrarsi in un gruppo del Ku Klux Klan.

In un momento come questo in cui Trump non fa nulla per placare le tensioni razziali, anzi le alimenta con frasi poco adeguate a un presidente, il ricordo di una storia come quella dell’agente  Stallworth non può che far bene.

Sono due le vicende che il regista americano porta avanti. Da un lato quella con le Pantere Nere e con una responsabile del gruppo locale di quel movimento per la liberazione dei neri. In questo caso il dibattito è quello di sapere se sia meglio agire dall’interno per cambiare il sistema oppure dall’esterno e quindi con una rivolta per le strade. D’altro lato inizia a investigare su un gruppo del KKK e riesce a infiltrarsi. Spike Lee lavora molto di più su questa storia, gli interessa in modo particolare, mentre lascia l’ambiguità sulla risposta alla prima vicenda. Perché, in fondo per lui, ogni modo di combattere contro il pregiudizio, alla fine è lecito.

È molto interessante lo stratagemma con il quale l’agente riesce a infiltrarsi. Perché è proprio su questo che il regista costruisce, con ironia, intelligenza e semplicità il film. In sostanza gioca sull’ambiguità della comunicazione. Infatti il protagonista sente solo al telefono il responsabile del KKK e si fa passare per un bianco arrabbiato. Mentre è un suo collega bianco a incontrarlo di persona, fingendosi Ron. Ecco, il gioco è semplice e tutto qui: l’ambiguità della comunicazione che nasconde il pregiudizio. Emblematica una scena. Ron e il responsabile del KKK sono al telefono e questi gli dice che lui non potrebbe mai essere un nero perché loro hanno un modo diverso di pronunciare le parole, un modo riconoscibile. E lo sta dicendo a un ispettore nero.