Il regista svizzero di origina americana Steven Michael Hayes ha realizzato un film molto americano, presentato nei giorni scorsi anche a Locarno, dopo essere passato in altri festival. Jill è infatti la classica opera che analizza chi esce dalla società per cercare un altro modo di vivere. Siamo alla fine del 1970, durante la lotta elettorale tra Ronald Reagan e Jimmy Carter, e una famiglia composta dai due genitori idealisti e anticonformisti e dai loro cinque figli sceglie di vivere nei boschi. Lontano dalla società e secondo il padre “dalla corruzione mentale”. Lui, figura autoritaria, radicale e dura nel suo modo di vivere e pensare ha accanto una donna eterea, scrittrice, colta ma debole caratterialmente. In mezzo ci sono i figli che subiscono questa scelta e soprattutto l’autorità malata di un padre-padrone d’altri tempi.
Jill è l’ultima arrivata, una bambina che vive una situazione difficile senza comprenderne le ragioni. Ed è anche una donna che, dopo qualche anno, vediamo cercare di ricostruire il puzzle della sua vita riallacciando i legami famigliari ormai spezzati.
È un film disturbante Jill, per la sua capacità di far emergere i lati oscuri delle persone e le loro paure più nascoste e malvage. Ma è anche una ricerca delle proprie radici e di un modo di vivere asociale che non ha funzionato. È come se il regista volesse dirci che l’uomo è comunque un animale sociale e non può fare a meno degli altri.
Girato in modo pulito e con un ottimo cast, Jill ha la capacità – come accade spesso ai film americani grazie a una bella tensione narrativa – di prenderti e non mollarti fino all’ultimo fotogramma.
Foto: Frenetic