Per il Concorso internazionale c’è anche Stepne, che in ucraino sta per steppa. La storia infatti si svolge interamente in una zona di confine tra la Russia e l’Ucraina, la cui cifra geografica è quella di una landa desolata e lambita dalle acque di un lago privo di azzurro ma carico di tutte le sfumature tra il bianco e il grigio. In questo posto sperduto nella campagna ucraina (in realtà, come rivelato dalla stessa regista, si tratta di Soumy, a nord-est del Paese, a un tiro di schioppo dal confine) il paesaggio svolge un ruolo centrale all’interno del film.

In questa terra invernale un autobus si ferma e lascia scendere, tra le pozzanghere, Anatoliy, costretto a tornare a casa per via della salute di sua madre, ormai agli sgoccioli. Affetta da febbri e vaneggiamenti, a stento lo riconosce. Suo fratello Oleksky giungerà solo quando lei sarà spirata. Il rapporto tra i due fratelli non sembra temprato su una base di solida e reciproca stima: si sfalda ad ogni confronto, sia pur minimo, sul da farsi dopo il decesso della donna. Quel che suscita più curiosità è la rivelazione ad Anatoliy – da parte della madre un attimo prima di morire – della presenza di un tesoro nascosto tra le tegole del tetto. In realtà lì sotto Anatoliy non troverà altro che un set di scalpelli che lui prontamente utilizzerà per incidere sulla lapide il nome e le date di nascita e di morte della donna.

La regista racconta che le interessava «il tema della scomparsa, della partenza e della separazione da quanto è prezioso. Il silenzio delle generazioni passate sulla propria storia ha fatto sì che creassi questo film – come per interrogare il passato sovietico del mio paese.».

Sulla scorta degli intensi 115 minuti sulla vita comunitaria di questo sperduto posto di confine, ho pensato di dare la parola alla madre, la quale – a parte i deliri e quelle ultime parole a proposito di un tesoro – nel film ci dice poco: principalmente dorme o parla a sproposito. Io me la immagino invece quando ancora la sua mente era vigile, durante i lunghi anni in cui Anatoliy e suo fratello Oleksky – come tanti altri ragazzi del villaggio – erano assenti. Gli anni in cui suo marito era morto e lei, da sola, aveva visto scorrersi accanto il tempo della solitudine.

«Il fiume Psel è un affluente del Dnepr, che scorre attraverso la Russia e il nostro Paese, l’Ucraina. Nelle notti in cui Anatoliy e Oleksky non erano più in casa ho fatto sogni foresti e angoscianti. In uno di essi (molto frequente soprattutto nelle notti autunnali) le acque del fiume erano attraversate da imbarcazioni oscure che Anna (una volta in amore con il  mio piccolo Tolya) e altre vicine dicevano non essere affatto delle barche, ma degli spiriti travestiti da carri armati galleggianti. Uno di questi vascelli era capeggiato da un pirata che raccontava ai corvi e ai cani della steppa di una futura invasione di grilli e pipistrelli, api, calabroni e cervi volanti. Sul tavolo in cucina ho un bocco notes su cui annoto la temperatura e l’andamento del meteo: da quando ho avuto la prima apparizione di questo vascello ho iniziato a segnarmi anche ciò che ricordavo dei miei sogni. Un’altra notte mi è apparsa un’imbarcazione diversa, più  sgangherata: su di essa c’erano musica, rinfreschi e allegria, ma anche una donna gigantesca con la testa calva che annunciava ai quattro venti la guerra civile. Quella notte ricordo di aver dormito poco. Nel bel mezzo del suo discorso un uomo tra la folla gridava: «Guardate, ragazzi! Cos’è quella strana pianta dalle liane dritte convergenti verso il cielo che rotola sul fiume?». Noi tutti del villaggio ci avvicinammo alla riva e, alla luce di torce a petrolio, avvistammo non una pianta ma la carcassa di una balena alla cui estremità, sulla coda ritta come una bandiera ghiacciata, un bull terrier si accaniva con i suoi denti. La balena  andava alla deriva con la corrente: aveva la forma sghemba e abnorme di un grande cetriolo sottaceto, di quelli che usiamo qui per accompagnare la vodka. Quando finalmente si fermò, sulla superficie butterata del cetaceo la luce delle nostre torce mostrò enormi escrescenze che presero a muoversi di vita propria e anzi si staccarono del tutto dalla carcassa. Da lì salirono sull’imbarcazione su cui si festeggiava e presero a danzare e cantare insieme agli altri viaggiatori sul ponte, mostrando a noi tutti facce terrificanti. Improvvisamente la musica si azzittì e anche i naviganti, che ben presto si tramutarono in statue di sale: l’unica forma di vita rimanente attestata era la danza di quelle tumefazioni tuberose che erano salite a bordo dalla carcassa della balena. L’imbarcazione anche non era più la stessa: adesso era divenuta una chiatta che prese a muoversi fuori dal fiume con ruote cingolate: entrò nella campagna dove Anatoliy e Oleksky giocavano da bambini e mio marito lavorava i campi. Gli stessi campi percorsi giornalmente da mio padre, un ufficiale postale bolscevico.

Se Soumy oggi è uno sputo di mosca, al tempo era uno sputo di moscerino; eppure le sue poche case sparse attorno alla chiesa ortodossa non avevano niente da invidiare alle città oltre il confine: aveva l’orgoglio duro e aspro della steppa, ma soprattutto era solidale: i figli non abbandonavano i genitori per cercare fortuna altrove e la serenità era assicurata. I nostri padri l’avevano resa così. Gli Unni sarebbero potuti tornare dall’oltretomba e non ci avrebbero cavato niente da noi. Dico gli Unni perché un altro sogno che faccio spesso riguarda proprio loro. Kama Tarkhan, il predecessore in quanto a fama del grande Attila, aveva mandato un suo messaggero qui da noi. L’uomo era smunto e lacero. I suoi occhi erano selvaggi e le sue mani grondavano di sangue. Il rappresentante del nostro villaggio, il padre di Ilich, l’amico del cuore di Tolya (quante partite a scacchi si sono fatti in cucina), gli andò incontro e gli chiese chi fosse: «Il tuo nome, lo scopo che ti porta qui?». L’altro non mostrò interesse alla domanda, ma mise una tromba sulle labbra facendole emettere uno squillo che lascerò l’aria. In un attimo breve come un respiro gli Unni entravano nelle nostre case attraverso i cancelli aperti degli orti. Nessuno la notte prima aveva pensato di chiuderli.

Che ne sarà di me, dei miei ricordi, dei miei sogni?».

Che ci crediate o no, sono questi i riverberi del film in questione.