Il debutto dietro la macchina da presa in un lungometraggio di finzione della regista francese Delphine Deloget è abbastanza riuscito. Rien à perdre, seppur non dica nulla di nuovo dal punto di vista cinematografico né tematico, è un’onesta opera prima che ha in Virginie Efira (madrina della scorsa edizione e qui tornata davanti alla camera) una bravissima madre single che non riesce a sostenere il peso di un figlio problematico.

Presentato a Cannes nella sezione Un certain regard, il lungometraggio racconta la storia di Sylvie, la madre, e dai suoi due figli, Sofiane e Jean-Jacques. I tre vivono a Brest, una cittadina portuale nel nord-ovest della Francia. Lei lavora in un locale notturno come barista e i due ragazzi, spesso e volentieri, sono a casa da soli. Una notte, mentre lei è al lavoro, il piccolo Sofiane si ferisce e incendia la cucina. A seguito dell’incidente viene fatta una denuncia a Sylvie e suo figlio viene inserito in una casa-famiglia. Aiutata da un avvocato e supportata dai suoi figli, la madre si batterà per vie legali per riavere l’affidamento del piccolo, decisa a vincere contro la macchina amministrativa e giudiziaria.

La lotta della madre contro il sistema, per poter riavere l’affidamento del figlio, è la miccia scatenante per una caduta sempre più profonda in un precipizio che non sembra avere fine. Più avanza il racconto più i problemi si accumulano e la situazione si fa sempre più grave e drammatica. I deboli legami che tengono insieme i tre membri della famiglia sembrano rompersi da un momento all’altro.

La scrittura del film è coinvolgente e non cerca facili soluzioni a problemi complessi e difficili. E anche la costruzione dei personaggi è tutt’altro che banale e stereotipata. La madre, l’eroina della storia, ha più sfaccettature e lo spettatore prova verso di lei un senso di empatia ma anche di insopportabile insofferenza. Non è un personaggio banale e come tale viene descritto e agisce. Ecco, l’azione della madre è il cardine attorno al quale ruota la pellicola e il motore della discesa negli inferi. Un’azione che tuttavia, spesso e volentieri, non viene supportata dal pensiero, dal ragionamento. Sylvie è infatti tutta cuore e istinto ma poco cervello. Un carattere che la regista riesce a mettere sullo schermo – grazie anche alla sua esperienza documentarista – in modo sicuro e senza scivolare nel facile melodramma.