Per supporre un’analisi del regista Harmony Korine saremmo obbligati a partire dal presupposto che l’urgenza di mettere in luce ciò che solitamente si tende a nascondere sormonta qualsiasi costruzione del pensiero nel suo fare cinema. Ma un’analisi, nel caso di Korine, avrebbe davvero poco senso, come poco senso ha avuto per lui la ricerca di una costruzione narrativa da scomporre ed anatomizzare, scegliendo piuttosto una relazione col reale nei luoghi tanto conosciuti quanto oscuri della sua crescita. Chissà se proprio scrivendo la sceneggiatura di Kids (1995), del regista Lenny Clark, Korine si sia convinto di volersi appropriare delle sue opere come regista. Forse proprio quest’occasione, peraltro già vicina al linguaggio futuro di Korine, lo ha messo nelle condizioni di dare il via al proprio immaginario. A ventiquattro anni realizza Gummo (1997), film che ha messo in luce i paradigmi che lo avrebbero contraddistinto. I presupposti del lavoro ci vengono raccontanti da una voice over sgranata di uno dei protagonisti, introducendo la decadente ed abbandonata città di Xenia, in Ohio, che vive le conseguenze di un tornado avvenuto due anni prima e dove tutto sembra essere rimasto come allora. In questo ambiente spazzato via dalla bellezza i protagonisti vivono tagliati fuori da una morale comune, in una periferia dell’animo umano, quasi a voler raccontare una sintassi dell’inconscio piuttosto che rendere accettabili le relazioni interpersonali. Quelle che Korine ripropone sono scene che sembrano davvero emergere da una necessità di collocare questo tipo di azioni, talvolta disturbanti, in un luogo ben preciso, senza giungere a un finale che metta tutto al proprio posto. Un bambino vestito solamente con delle orecchie di coniglio, altri due che passano il tempo torturando gatti e sniffando colla, tre sorelle che vengono attirate da un pedofilo che offre loro aiuto.
È un’infanzia abbandonata a sé stessa seppur non sprovvista di cenni latenti di umanità, quella che il regista vede. Due anni dopo, un altro film importante nella nuova seppur ben radicata carriera di Korine: è Julien Donkey Boy (1999), film girato secondo i canoni del Dogma ‘95. Anche qui la disfunzionalità prende possesso e sopravvento sulla razionalità, raccontando le vicende di Julien, schizofrenico in balia di sé stesso, e della sua famiglia, sopra la quale vige la figura dominante ed invadente del padre, interpretato da Werner Herzog, ed all’interno della quale viene fatta trasparire l’allucinante ipotesi che il bambino portato in grembo dalla sorella (interpretata da Chloë Sevigny, già presente in Gummo) sia frutto di un incesto.