È sicuramente un personaggio importante e che merita un bel film come quello di Frédéric Tellier, presentato fuori competizione, all’ultimo festival di Cannes.
Stiamo parlando dell’Abbé Pierre, il fondatore di Emmaüs e diventato celebre per la sua lotta in favore dei poveri. Uomo coraggioso, radicale e senza timori reverenziali, ha dedicato la sua vita al prossimo e ai più deboli. Nato nel 1912 e morto nel 2007 Henry Grouès (questo è il suo vero nome), ha lasciato dietro di sé un’impronta destinata a restare nella storia francese, ma non solo. E la sua vita è stata avventurosa e ricca di eventi che sono stati trattati piuttosto bene dal regista transalpino.
Occorre anzitutto dire che gran parte del merito va a Benjamin Lavernhe, l’attore francese che incarna davvero in modo convincente e con una grande energia questo prete combattente. Ed è attorno a lui, il vero pilastro della vicenda che ruota tutta l’opera. Infatti, Tellier filma un biopic classico toccando diverse epoche; dal Dopo-guerra agli ultimi anni di vita di Pierre. E lo fa con una certa cura dei dettagli e soprattutto mantenendo viva la narrazione grazie all’amicizia con Lucie Coutaz (Emmanuelle Bercot) la quale diventerà il suo braccio destro per tutta la sua vita e che sarà fondamentale nella costruzione della comunità Emmaüs à Neuilly-Plaisance.
Un altro aspetto che va sottolineato è quello relativo alla trasformazione dell’Abbé Pierre in un personaggio mediatico di primo piano. Con la sua energia riesce, poco alla volta, a conquistare i riflettori e l’interesse del pubblico e dei politici. Fino ad arrivare all’incontro con Chaplin che gli dona 2 milioni di franchi francesi nel gelido inverno del 1954 per aiutarlo nella sua opera in favore dei poveri. “Je ne les donne pas, je les rends. Ils appartiennent au vagabond que j’ai été et que j’ai incarnéʺ, disse lo stesso Chaplin in quell’occasione.
Il film di Tellier segue la vita del prete adeguandosi al ritmo delle varie stagioni. I movimenti di camera sono nervosi, ravvicinati, agitati quando partecipa alla II Guerra Mondiale come sottoufficiale e quando opera nella Resistenza. Il suo modo di filmare diventa meno aggressivo quando inizia a costruire la comunità ed è nettamente più lento nell’ultima parte della sua vita (usando anche lo split-screen in alcune scene) quando lo vediamo lasciare le redini ai suoi successori. Una trasformazione stilistica che diventa ancora più evidente con l’inserimento, nell’ultima parte, di materiale di vario genere: dal documentario a immagini d’archivio passando per la voce off del prete. Il tutto per ripetere in modo costante ed evocativo i suoi messaggi forti e radicali.
E a proposito dell’inserimento di poveri veri e attuali nell’ultima parte del film lo stesso regista risponde: “Ai miei occhi era l’unica possibile risoluzione di questa storia, che purtroppo rimane attuale ancora oggi. E questo simboleggia ciò che mi interessava di più quando mi sono imbarcato in questo progetto. Il cinema ci parla del mondo. I film ci riempiono di meraviglia, sia dal punto di vista artistico che emotivo, e ci fanno anche riflettere, forse cambiando un po’ il nostro un po’ il nostro punto di vista. Con questo film ho voluto anche parlare del mondo che ci circonda, nel quale viviamo. Quello che possiamo ancora migliorare un po’…”
Un’opera che riesce a dare un’idea abbastanza completa (anche perché dura più di due ore) della vita di un personaggio entrato nella storia, se non addirittura nella leggenda e che ha lasciato molte tracce della sua opera.