Presentato a San Sebastian Un silence è un film fatto di sguardi e segreti. Di silenzi e viaggi in auto, dove le verità fanno male e si scoprono a poco a poco. Joachim Lafosse è voluto entrare nelle dinamiche malate di una famiglia borghese e sconvolgerle lentamente. Mandarle in frantumi con grazia ma fermezza.
Malgrado l’apparenza e il ritmo, piuttosto lento, è un film molto moderno Un silence. Dove la grazia e la discrezione della forma si scontra con l’aggressività e la violenza del contenuto. Astrid (un’intensa Emmanuelle Devos), moglie di un celebre avvocato, vede il suo equilibrio famigliare distruggersi davanti ai suoi occhi, quando emerge un fatto di diversi anni prima. Si parla di filmati pedopornografici e soprattutto del silenzio che ha avvolto, come una cappa la vita della famiglia.
Ci sono molte scene girate all’interno delle auto, con i protagonisti che si spostano da un luogo all’altro, da uno stato d’animo all’altro. Così facendo la vettura diventa luogo di passaggio, ma anche un rifugio nel quale pensare, riflettere e soprattutto rifugiarsi dal mondo esterno. Così come è un rifugio la lussuosa villa, con piscina, nella quale Astrid e la sua famiglia vivono. Lasciando fuori i paparazzi che assediano la casa tutto il tempo e il mondo con i suoi problemi.
Come detto, la forma del film è davvero molto misurata. Il modo di giare di Lafosse non è invasivo. Tutt’altro. Ed è lo stesso regista a sottolinearlo: “Un silence è uno dei film che ha richiesto rigore. Poiché nulla doveva essere visibile, il minimo movimento di camera era inaccettabile, doveva essere cancellato. Si trattava anche di evitare il più possibile il campo/controcampo. Mai guardare in basso, mai sporgersi”. Perché, in definitiva, la protagonista Astrid ha vergogna. Del comportamento del marito e del suo silenzio durato troppi anni. “Sì, credo di sì, ma non me ne sono reso conto mentre scrivevo la sceneggiatura. È stato sul set, con Emmanuelle, che lo abbiamo sentito. Il crimine provoca la paura, la paura provoca il silenzio che alimenta il senso di colpa e la vergogna. È sbagliato giudicare il silenzio. È un sintomo. Non dobbiamo mai dimenticare che il silenzio non è il crimine e che dietro ogni persona silenziosa c’è un calvario, una difficoltà a parlare, una fragilità” sottolinea ancora il regista.
Non è un film semplice da dimenticare. Ma non per il tema di cui parla (ce ne sono molti di film che hanno trattato questo soggetto), ma per il modo con il quale lo fa. Il silenzio del titolo è appunto la cifra con il quale bisogna guardare l’opera, ed è sostenuto a livello stilistico da colori tenui, ma scuri, quasi a ricordare un passato ormai lontano e sbiadito, ma comunque oscuro. Ed è per questo che è ancora più efficace e toccante.