Quando la sera cala il crepuscolo e ci vuole un bicchiere di vino, è forse il momento giusto per guardarsi un film di Gianni Di Gregorio. Il regista romano non figura certamente nella lista degli scontati per varie ragioni, non ultima quella di essersi proiettato nel mondo dei cineasti italiani alla soglia dei 59 anni con l’applauditissimo Pranzo di ferragosto, presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2008 (Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis”, David di Donatello e Nastri d’argento). In qualità di sceneggiatore, invece, ha firmato, tra le altre cose, la scrittura di Gomorra.

Il suo ultimo lavoro, Lontano Lontano, è stato presentato al festival di Torino ottenendo un felice riscontro di critica e pubblico e, a partire da febbraio 2020, circola nelle sale.

La storia è incentrata sull’idea, di tre anziani signori romani, di espatriare. Una necessità innanzitutto economica, tipica di tanti italiani del secolo XXI congedati dal lavoro, ma anche esistenziale in senso lato. I protagonisti sono due pensionati trasteverini – interpretati dallo stesso Di Gregorio e Giorgio Colangeli – e un tuttofare restauratore di antichità, che vive in una delle periferie romane più desolate e distanti, Torre Spaccata. A chiudere il numero degli attori del film, inoltre, c’è Roberto Herlitzka, il prof Federman, il quale, vedremo, avrà un ruolo cruciale nell’indicare ai tre la strada da prendere.

Riassumendo, quindi, abbiamo Giorgetto (Giorgio Colangeli), uomo del popolo che nella vita ha lavorato pochissimo e ha la pensione minima, il professore di latino e greco (Di Gregorio stesso), anch’egli in pensione, romano nella sua intima e rilassata anima, che non si muoverebbe mai – ma che alla fine viene coinvolto – e questo terzo outsider, Attilio (interpretato da Ennio Fantastichini, tra l’altro deceduto subito dopo le ultime riprese), che nel film si trasforma subito nel capo de facto dell’improbabile gruppo di “giovani” expat. In realtà Attilio presto si rivelerà come il più matto di tutti, capace prima di trascinare gli altri due in questa incerta partenza, poi di far cambiare rotta all’intero progetto. L’idea di andare all’estero, dove la pensione vale di più, a lui non si addice in verità, essendo egli un cittadino senza contributi versati; ma il fatto di partire gli si attaglia subito alla perfezione. Lui, del resto, nella vita racconta di aver fatto tanti viaggi con la sua Triumph degli anni ’70 perfettamente funzionante e con cui ancora si sposta tra le strade di questa assolata, meravigliosa Roma dei bar. Per di più ha mire imprenditoriali, tra le quali quella di aprire (nelle Azzorre portoghesi) un alberghetto con poche stanze, pur non avendo nessuna esperienza nel campo: “e che c’entra quella – dice in un memorabile discorso alla figlia – uno deve essere pure un po’ intraprendente nella vita!”

Nella migliore tradizione della commedia all’italiana, Di Gregorio si impegna a descrivere un tema attualissimo in Italia e non solo: in Portogallo i tuoi pochi spiccioli valgono eccome e vai alla grande!  Una fuga, come dire, di cervelli (e di pannoloni!) verso mete da sogno. L’idea, racconta Di Gregorio in una video intervista che si trova in rete sul sito di movieplayer.it, gli è stata suggerita da Matteo Garrone: lui in due minuti gliela dà; il regista, con la sua sapienza scritturale, ci impiega due anni per trasformarla in film. Due componenti, quella dell’idea e del tempo giusti per realizzarla, che portano dritto dritto a questo piccolo, autentico gioiellino italiano. Giusto ricordare anche Marco Pettenello, sceneggiatore anche lui, che ha aiutato Di Gregorio nella scrittura. Pur essendo veneto di nascita, nella pratica si è rivelato più romano di lui: “era lui che voleva mettere le parolacce!”

Due anni di lavoro e poi i dialoghi sembrano nascere lì per lì: sono dialoghi “veri”. I tre protagonisti, c’è da dire, lavorano in perfetta simbiosi l’uno con l’altro e il risultato della recitazione è scoppiettante in quanto a brillantezza e originalità: invenzioni, battute improvvisate azzeccatissime e spontanee che non hanno mai avuto modo di essere censurate da Di Gregorio, proprio per la loro naturalezza.  Questo tipo di miracoli, ovviamente, sono possibili solo quando la sceneggiatura è scritta con sapienza; su questo ci sono pochi dubbi e la storia del cinema ne offre ampia scelta (da Jack Nicolson in Shining – sceneggiatura di Stanley Kubrick, soggetto di Stephen King – a Mastroianni nella Dolce Vita – sceneggiatura di Flaiano e Pinelli). Quando la sceneggiatura è forte, e l’attore si sente protetto e incanalato, integrare o arricchire è più facile insomma.

La cosa che piace di Di Gregorio regista, poi, e che in ultimo marca la sua cifra più originale, è il fatto che nei suoi film allo spettatore sembra sempre di ritrovarsi di fronte a un regista-attore che riproduce esattamente la sua vita reale; sembra sempre di starsene lì a passare un’ora e mezza a casa sua, insieme a lui, con quel famoso bicchierino di vino.

Se Pranzo di ferragosto è un film al femminile, questo è molto al maschile: dalle vecchiette ai vecchietti, verrebbe con spontaneità digregoriana da dire. Tra questi vecchietti, si accennava poc’anzi, Herlitzka fa solo un cammeo, ma che si incastona benissimo nella mente di chi guarda. Esperto delle migrazioni, si potrebbe riassumere il suo ruolo! Colto, vive in una villa che si erge su uno dei castelli romani, al fresco dei pini: è proprio lì che i due pensionati e Attilio si recano per portare un mobile antico. Ecco quindi che i tre, allora, colgono l’occasione al volo per chiedere a Federmann un parere sulla loro possibile meta, come fosse un guru, una specie di oracolo, e ne viene fuori un’interpretazione metafisica, nella sua illustrata e fondata argomentazione: i tre ne restano come ipnotizzati. Da quel momento in poi, durante tutta la preparazione alla partenza, Federman li segue, li corregge, continua a guidarli.

Poetico realismo e comicità fanno emergere le paure dei tre. Perché, alla fine dei conti, è sempre con quelle che l’uomo si scontra. Insomma, partire o restare? La risposta non gliela fornisce né Attilio né il professor Federman, ma Abu (Salih Saadin Khalid), un migrante vero che utilizza la casa di Giorgetto per farsi una doccia, visto che sotto i ponti del Tevere, dove usualmente dorme, di queste per noi scontate comodità non ce ne sono. Una figura che smuove le coscienze dei protagonisti. Piuttosto che i nostri velleitari, ancorché simpatici poltroni, il vero viaggiatore è lui.

Il finale stupisce, commuove, accende nello spettatore una luce concreta di vita.

Film da vedere perché, oltre ad essere una commedia – si ride veramente tanto –  offre dei ritmi e dei tempi non scontati o prevedibili: si prende delle pause, si rilassa, entra in curve, golfi, e a volte si spiaggia: non c’è il dictat di un unico ritmo cinematografico che in molti film odierni pare imposto. Un lavoro schiettamente indipendente, insomma, che ispira un sentimento di libertà in chi lo guarda ed entra nelle maglie della vita delle persone della società, permettendosi di affrontare temi anche importanti, sempre con un tono preciso. Che noialtri, amanti di Di Gregorio, ormai riconosciamo.