Considerato da molti un cineasta che ha saputo non solo rompere con l’onda stilistica negli anni ‘80, ma firmare delle pellicole importanti, Jim Jarmusch fa sicuramente parte di quei registi che ho seguito maggiormente e che ho accolto dentro di me nel corso degli anni.
I suoi film mi hanno permesso di definire un certo gusto personale nei confronti di tematiche, sensazioni, situazioni di vita spesso lasciate ai margini, e che quei margini alla fine se li sono mangiati, e che quei margini, forse, sono diventati più importanti del resto.
Arrivato da Akron e attratto dal cinema come quel luogo dove non c’è vera differenziazione tra le forme d’arte, Jarmusch lascia, prima di finirli, gli studi in cinema a New York, (ri)cominciando così a costruire la propria visione e poetica personale.
Sicuramente, un aspetto fondamentale del suo modo di fare cinema sta nel particolare percorso e approccio nei confronti del passaggio fra l’idea e l’immagine, sostituendo la narrazione come punto di partenza e posizionandola piuttosto come punto di arrivo. L’idea è dunque quella di arrivare a una struttura partendo dai frammenti che nascono dall’immaginazione, dalle idee di personaggio e dagli avvenimenti insoliti, scuotendo e facendo incontrare gli elementi esattamente nel punto esatto, là dove possono condividere lo stesso spazio e lo stesso tempo, là dove possono anche trovare la propria fine.
Il suo film d’esordio, nato come lavoro di tesi per poi trovare il suo spazio al di fuori, è il lungometraggio Permanent Vacation (1980). Come accade spesso, in questo primo film si trovano già tutte quelle esigenze portate in immagine che poi Jarmusch riprenderà nelle sue opere future. L’assenza apparente di storia vede il protagonista, non-attore, esibirsi di locale in locale, fra pareti scrostate e una città che gioca il suo ruolo di protagonista contenitrice di tutto il disagio ma anche di scelte di vita precise e malviste.
Alcune scene-quadro sono vere e proprie opere d’arte, composizioni che scovano la bellezza allontanandosi dalla città, negli angoli bui e sui muri impregnati di umidità.
Ma cosa significa per Jarmusch evitare la storia? O è piuttosto un tentativo di scendere fino a raggiungere gli scantinati della storia stessa, là dove si trova quello che si è dimenticato, là dove non c’è bisogno di raccontare altro?
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