Eccola qui la gente di una banlieue parigina. Dopo una quindicina d’anni da La Haine di Kassovitz. Non è cambiato nulla. La stessa povertà, la stessa rabbia e la stessa disperazione.
Les Misérables, il primo film francese in concorso a Cannes, è riuscito nel suo intento: fotografare il degrado di quei luoghi. No, anzi, meglio: immortalare il popolo che li abita.
La storia è semplice: Stéphane è un agente che arriva da un’altra città e si aggrega a due colleghi più navigati: Chris e Gwada. Poliziotti che usano le maniere forti per farsi rispettare e non si fanno scrupoli a far accordi con i malavitosi del quartiere. Stéphane fa fatica ad accettare questa situazione, lui ligio al dovere e convinto dei suoi valori e principi. In una sola giornata il nuovo arrivato capisce come gira il mondo da quelle parti e si adatta, fino a quando un incidente (ma forse chiamarlo incidente è sbagliato) scatena la banlieue.
Il regista Lady Li (al suo debutto come regista di fiction e in competizione a Cannes) ha spiegato di aver vissuto sulla propria pelle, da ragazzo, quei fatti e di averli voluti raccontare perché da allora poco o nulla è mutato.
Bel film, davvero bello. Ti tiene incollato allo schermo dall’inizio alla fine senza mai annoiarti e senza mai farti guardare l’orologio. Cosa rara ai festival. Il realismo che traspira è frutto dell’esperienza del regista e di una scrittura convincente, senza sbavature né esagerazioni. E gli attori sono realisti, ben inseriti in quel contesto urbano. Ben costruita anche la realtà sociale di quella periferia, fatta di bande e capetti, violenza e rispetto.
E se il titolo richiama a Victor Hugo e quindi a un’epoca ormai lontana, allo stesso modo ci ricorda che i miserabili non se ne sono mai andati. Sono qui, tra di noi, e forse un po’ lo siamo pure noi che non vogliamo accorgerci di quanto sta succedendo dietro l’angolo di casa nostra.