Ascoltare Quentin Tarantino che racconta Sergio Corbucci significa immergersi in un mondo lontano nel tempo e nello spazio. È quasi come fare un giro su una macchina del tempo, tornare agli anni 60 e quindi ripartire, con la consapevolezza di aver ritrovato un mondo che ormai non esiste più, fatto di bravissimi artigiani e avventura, di fango e inventiva. Insomma, è davvero una goduria per chi ama il cinema.
Lo sa bene anche Luca Rea, il regista di questo Djando & Django, un documentario presentato alla Mostra di Venezia fuori concorso che vede protagonista lo stesso Tarantino.
“Con questo film abbiamo voluto al tempo stesso omaggiare un grande regista del passato (Sergio Corbucci) e un grande regista contemporaneo (Quentin Tarantino), raccontando con la sensibilità di oggi una grande stagione del nostro cinema. Abbiamo lavorato sulla memoria, cercato materiali inediti, dato spazio al racconto e alla passione. Abbiamo voluto raccontare un’epoca senza nostalgia, ma con affetto e con lo stesso senso del divertimento che è caratteristico dei due registi da noi omaggiati”, sottolinea Rea. Ed è proprio così, i due Django metaforici quello presente e quello passato (Tarantino e Corbucci), si sovrappongono in un mix di citazioni e racconti che non vorresti mai finire di vedere e ascoltare.
Senza contare che il documentario è impreziosito dagli aneddoti di Ruggero Deodato (che con Corbucci collaborò su 13 film) e di Franco Nero (l’attore di Django). E attraverso i loro racconti emergono tratti caratteriali di Corbucci (“oltre a essere divertente era anche crudele, aveva un tratto sanguinario che faceva emergere nei film”) e il suo pensiero politico “molte sue opere sono politiche, anche e soprattutto i western”. Ma è soprattutto l’ammirazione di Tarantino per uno dei padri degli spaghetti western a emergere. Il regista americano passa in rassegna i suoi film più importanti, quelli degli anni 60 soprattutto. E di ognuno offre un’interpretazione, ne sottolinea un aspetto, scava dentro un carattere, una scenografia e scova pietre preziose che Corbucci (magari anche inconsapevolmente) ha nascosto qua e là. E, ovviamente, lo descrive come “il secondo miglior regista di western italiani”, come afferma un personaggio nel suo ultimo film C’era una volta a Hollywood.
Il tutto a fianco dell’ombra lunga del regista che Tarantino ama più di tutti; colui che realizzò “la più grande trilogia della storia del cinema e che cambiò l’industria cinematografia di quel tempo”. Sergio Leone, of course.