Animal non sono riuscito a vederlo in sala e mi sono accontentato del mio computer: notte, casa buia, cuffie, tutto tace attorno. Camilla, la mia fedele Labrador, russa ai miei piedi. Fuori c’è un vento che sferza le veneziane della finestra. Clicco sul play e il film inizia. Mi porta su una delle tante isole a vocazione turistica dell’arcipelago greco, in un resort all-inclusive dove gli animatori (prevalentemente provenienti da Paesi di cultura slava, ma non solo) si preparano per la frenetica stagione turistica. Il capogruppo è Kalia, nome non casuale perché in greco sta per «bene». La interpreta Dimitra Vlagopoulou, un’attrice che non dubito farà parlare di sé. Giusto le consiglierei di scegliersi un bel nome d’arte più facile da ricordare!
In verità di «bene» Kalia ce ne fornisce poco, ma questo non vuol dire che non ci porti da nessuna parte, anzi. Una ferita che rimedia sotto il ginocchio è l’inizio del nostro percorso con lei sulla via del tramonto, della fine. È un film sulla mortalità, la quale si fa strada in tutti i suoi protagonisti, ma si rispecchia senza fronzoli solo negli occhi della Vlagopoulou. La sua è una performance da grande attrice: è pronta a prendersi qualsiasi premio, lo ripeto, qui a Locarno come altrove. Una che pare una tanica di benzina pronta a incendiare le storie!
Sono varie le scene che mi hanno portato altrove con la testa, ma forse più che di momenti precisi mi piace immaginare le singole vite di questi ragazzi, tutte segnate da fughe, percorsi a ostacoli e corse dritte verso un divertimento sfrenato, onnivoro, logorante. Spietatamente logorante. Il dramma sta tutto qui, in questa meta d’arrivo piena solo di fuffa e niente più. Di loro non sappiamo niente, eppure stanotte me li sono visti a uno a uno i loro fantasmi girarmi intorno. Di Kalia sappiamo che neanche sedicenne ha lasciato la sua famiglia e che da circa 19 anni fa questa vita. Ma da bambina cosa pensava, chi era Kalia?
A dirla tutta adesso sta qui di fianco a me nella stanza la piccola Kalia: mi sussurra che andava a scuola ad Atene. Una bambina picchiata e lasciata per ore da sola, come un sasso su una linea ferroviaria. Una adolescente condotta in luoghi abitati e danneggiati da drammi irrimediabili.
Poi c’è Eva, la ragazza polacca che è appena arrivata sull’isola: lei mi guarda con occhi segnati da una vicenda fosca come potrebbe essere la morte di un fratello per uno sciagurato incidente e improvvisamente inghiottito dalla terra sul retro del suo giardino.
Simos, l’altro veterano insieme a Kalia, si è affacciato da dietro i vetri della finestra: nel film è un uomo molliccio e segnato dall’alcol; qui da me, invece, è un ragazzo scampato per miracolo al traffico di organi in Bulgaria. Fa giusto in tempo a dirmi questo che il vento se lo porta via vattelappesca dove. Nel film sembra sempre dire che – per quel che lo riguarda – la sua deve essere una vita gloriosa. In realtà già la sua faccia butterata e gonfia da ragazzo mi dice che nessuno gli crederà mai, né Kalia né nessun altro.
Jonas, un altro del gruppo, si è seduto sul divanetto che ho alle spalle; la sua sagoma si specchia nello schermo del Mac: è un mingherlino perennemente pronto a ripetere che no, lui non vuole che qualcuno muoia dalle sue parti, anche se la verità lampante è che la vuotezza che si porta dietro – e di cui si fa penoso messaggero – è peggio della morte!
Ma forse il personaggio più annichilente di tutta la storia è la figlia di Kalia, una bambina già perfettamente integrata nel mondo delle paillettes e dei nastrini sui capelli, dei party scatenati e della mancanza assoluta di lucidità nelle questioni quotidiane. Un mondo da lei così ferocemente sentito, che raggiungerlo diventa la sua unica e possibile ambizione.
Da questo tipo di relitti di vite Sofia Exarchou ritaglia in Kalia un vivido scampolo di onestà difronte alla vita: impattante e intensa, interrogante e piena di avvertimenti. Ti fa entrare nel difficile dramma del fare due passi indietro e uno di lato («turn around: again!», impartisce ai turisti in piscina). Nel suo ritmo e nel suo narrare è stata capace di creare il vestito giusto che non ti si stacca dalla pelle: al momento è l’unico film che mi è rimasto così bene incollato addosso. Ha la propria geografia distintiva. È una storia ma è anche un luogo dove i pensieri annegano nel deserto dell’autocommiserazione. Insieme a Kalia che cantaYes Sir, I Can Boogie (successo internazionale del duo Baccara, rinato poi in innumerevoli cover e col tempo divenuto un classico della disco music) ci siamo noi. E noi capiamo con lei che il tempo è finito, che il tempo è un’avversità vasta come il cielo e profonda come gli abissi di Poseidone. Gli atti di Kalia sono lo specchio dell’inevitabile gracilità umana. Nei titoli di coda – che scorrono in rosa come i fasci di luce di una discoteca – la parola Animal perde la elle finale e si fa anima.
Se questo film non vince un premio mi ritiro in un eremo!
Nell’attesa mi accontento di guardare Camilla dormirsela beatamente. Pare mi dica che è ora di andare a letto e sognare. Saranno le tre di notte e il vento no, non sferza più le imposte.