La seconda scena del docucorto LOCARNO 2 ha per me un valore particolare perché è quella dedicata non solo alla poesia Bussò il vento di Emily Dickinson, ma anche alla poesia in generale, la mia compagna di viaggio da sempre, da quando andavo a scuola. La poesia è stata la ragione per cui ho fatto le mie scelte più importanti: è per la poesia che a 16 anni non mi sono perso quando ho scoperto di essere ammalato di diabete; è per la poesia che ho chiuso la porta in faccia alla laurea in scienze forestali, dove pure avevo superato tre esami in tre mesi (con l’esattezza analisi uno, che non è proprio una passeggiata di salute, botanica, che non è un esame che ti permette di andare al cinema tutte le sere, e zoologia, un’altra mia nascosta passione mai sopita); è per la poesia che ho studiato con i migliori professori della Sapienza (parlo di Luca Serianni, Nino Borsellino, Mario Scotti, Walter Pedullà, tutti luminari nella loro disciplina, basta googlare  i loro nomi in rete); è per la poesia che ho viaggiato e vissuto in Egitto e in Irlanda; è per la poesia che ho mia moglie accanto; è per la poesia che ho due splendidi figli; è per la poesia che mi piace insegnare agli allievi acneici e turbolenti della scuola media e che ho lasciato alle spalle le collaborazioni allo University College of Dublin, in terra d’Irlanda. È la poesia che mi permette di entrare in classe e sentirmi fortunato. Diciamo che ne ho donde per parlare della seconda scena, no?

Dietro i suoi 78 secondi, un minuto e diciotto, c’è il lavoro dell’anno scorso, quando la II A era la I A, ovvero un gruppo di pischelletti appena entrati a far parte dell’ottovolante della scuola media. Non smetterò mai di apprezzare la rivoluzione dei laboratori di italiano in prima. In una parola, fondamentali! Non esiste un aggettivo più calzante. È infatti in quei laboratori che costruivo le basi per lo spettacolo teatrale che avevo in mente di fare quest’anno. È lì che abbiamo scritto diciassette racconti sulla matematica in collaborazione con il collega Daniele Pezzi per il concorso Matematicando (dove, tra l’altro, Kevin è stato premiato); è lì che abbiamo scritto un inverosimile menù di parole nel quale le pietanze erano lemmi descritti nella loro essenza sonora; è lì che abbiamo scritto una trentina di filastrocche dell’assurdo basate sui Versi del senso perso di Scialoja: la prima la leggemmo seduti in cerchio in piazza Grande (pur non sapendolo il Locarno Film Festival ci chiamava…) durante la prima uscita di settembre. Con noi c’era anche la mia collega di educazione fisica Dolly Dal Mas, a cui sento di dire grazie per il supporto e la fiducia durante tutto l’anno. Anzi, visto che ci siamo, sento di dire grazie anche a Nadia Colombo, che inizialmente aveva abbracciato il progetto teatrale con entusiasmo e stima. Mi dispiace non aver potuto concludere il lavoro con lei, ma ognuno ha i suoi giusti motivi e impegni. Ci mancherebbe. Ma il suo «sì» all’inizio dell’anno scorso mi ha dato la spinta necessaria. Fondamentale anche il supporto del direttore Patrick Dal Mas e di tutti i colleghi che in un modo o in un altro mi hanno fornito una mano. Parlo di cose che sembrano piccole e invece sono enormi: ore di supplenza, consigli, sorrisi di stima. In fondo è anche di questo che un ambiente sano di lavoro è fatto. Certo, tra tutti il più importante è stato Umberto De Martino, senza il quale non avrei potuto portare a termine il lavoro e senza il quale adesso non staremmo qui a parlare della seconda scena, quella incentrata sulla parola «poesia». Dicevo che ci tenevo perché la Dickinson non è solo una poeta, ma anche la rappresentazione di quello che io credo sia la poesia, ovvero suggestione onirica e visiva. Diceva il mio prof di Letteratura Italiana alla Sapienza, il succitato e compianto filologo Mario Scotti, che i grandi poeti sono prima di tutto grandi visionari. Proviamo a immaginare i più importanti della storia della letteratura e l’assioma si specchierà in sé stesso come una perla nella sua valva. Dico Dante, Shakespeare, Coleridge, Baudelaire, Neruda, giusto per sondare per sommi, sommissimi capi la storia mondiale della poesia. Dunque la visionarietà. Ecco la chiave con cui guardare la seconda scena. La poesia Bussò il vento (l’originale The Wind—tapped like a tired Man la abbiamo ascoltata grazie a YouTube…) è stata oggetto di analisi sonora e ritmica, oltre che tematica. Ricordo con piacere i ragazzi invitati a declamarla in piedi su un banco posto al centro dell’aula (nelle mie aule ho sempre prediletto la disposizione a mezza luna dei banchi, quasi a creare il semicerchio di un teatro…). Quest’anno era inevitabile chiamarla in causa per questa scena, nella quale la luce catturata in ottobre da Umberto (lungo il fiume Maggia e sul lago Maggiore) e la voce delle sei allieve della classe (Martina, Irada, Anna, Eleny, Sharon e Matilda) si compenetrano in un mirabile intreccio. Ora, volendo analizzare la visionarietà di questi 78 secondi, non possiamo prescindere dagli alberi e da tutto ciò che le piante evocano. Il colore scelto non è a caso il bianco e nero. Ci abbiamo discusso a lungo io e Umberto in seguito a una proposta di Mara Manzolini e alla fine abbiamo optato che sì il bianco e nero sarebbe stata la scelta giusta. Anche in classe ho posto la domanda e la maggioranza era d’accordo con noi. È vero che le riprese autunnali meritavano i colori pieni (sembra anzi una bestemmia togliere le cangianti tinte dell’autunno), ma in poesia, dobbiamo tener presente, i colori te li devi immaginare tu. Mai vaglio fu più accurato. Felicissimo di essere arrivati, tutti insieme, a questa conclusione. Torniamo adesso un attimo agli alberi e proviamo a vederli così come Umberto li ha ripresi. C’è una cernita ristretta ma molto identificativa della flora arborea che prospera lungo il corso del fiume Maggia. Non tutte le riprese, ovviamente, sono state inserite: il lavoro del montaggio, il più importante quando fai un film, ci ha imposto di vagliare, togliere via, epurare. Eppure si vede il pioppo tremulo, il pino silvestre, il pruno, il faggio, la vegetazione boschiva che abbraccia il lago. Insomma, l’albero come porta della visionarietà della poesia. L’albero come simbolo della poesia. Anni fa (ce n’è ancora traccia in rete se cercate) feci un progetto sulla poesia, il cui simbolo fu per l’appunto l’albero inteso come elargitore di semi di-versi. La città di Locarno deve molto del suo aspetto alla presenza degli alberi. Ce ne sono lungo i passi rumorosi dei torrenti montani; nelle preziosissime golene del fiume Maggia; sulle contrafforti delle Prealpi che la circondano; lungo la linea scura della Centovallina che congiunge il centro della città con il centro di Domodossola in Italia; ai margini della piana di Magadino che lenta e laboriosa copre le linee che vanno a sud, a est e a nord del nostro orizzonte. Gli alberi rappresentano il ricordo del passato e lo slancio verso il futuro: avete mai pensato che gli ippocastani del lungolago esistevano già quando Oscar Wild o Friedrich Nietzsche erano in vita? Pazzesco a rifletterci su un attimo! Da qualsiasi punto cardinale tu ti avvicini a Locarno, prima di tutto vedi gli alberi: sono sempre in vista, come un segnale sulla strada. Veramente non so come spiegarlo: forse è per il fatto che le impressioni dell’infanzia sono particolarmente care all’uomo (da piccolo ho rischiato di incendiare il giardino del mio palazzo cosparso del polline lanoso di due pioppi giganti), forse il pioppo è legato ai miei studi passati; ma ogni volta che mi reco a scuola in motocicletta, in primo luogo con gli occhi cerco i pioppi tremuli sparsi tra il lungolago e il bosco di via alla Lanca degli Stornazzi. Anche se non sono poi così tanti per me sono comunque sempre percettibili, sempre visibili. Le riprese di Umberto coprono tutta l’area che va dal lago al fiume. Sembra di seguire i suoi occhi sotto quegli alberi ed ascoltare a lungo, fino all’ebbrezza, il rumore delle fronde. Oggi Locarno è piena di alberi di qualunque specie (sono arrivati prepotentemente i banani, le palme giapponesi e quelle del libano, oltre a specie australiane e via discorrendo), ma a mio modo di vedere sono i pioppi tremuli a registrarne lo spirito: hanno un proprio, particolare linguaggio, e probabilmente una propria, particolare anima canora. In qualsiasi momento tu vada lungo l’argine del fiume ne incontrerai qualcuno pronto a stupirti: di giorno o di notte, essi oscillano, le loro fronde, le loro foglie bicolore – verde lucente da un lato e grigio opalino dall’altro – si accavalcano le une alle altre, rumoreggiando incessantemente nei più svariati modi e nelle più imprevedibili fogge di luce. A tratti pare di udire una tiepida onda di bassa marea su un lido roccioso, a tratti una tempesta d’alto mare che sciaborda schiuma nel vento; ora corre tra i rami come un’impercettibile striscia di ombre indaco, un appassionato mordere di denti, ora, improvvisamente, dopo un attimo di silenzio, il respiro rumoroso e scompigliato di un ladro in fuga, oppresso dalle sue preoccupazioni. E dietro le loro fronde mai troppo invadenti è impossibile non scorgere il cielo. Ecco, il bianco e nero ha reso anche il giusto tributo al cielo che conclude la scena e la poesia della Dickinson: ci sono tre pini silvestri – che nell’ultimo verso esprimono nella loro magrezza la solitudine – e poi c’è il cielo. La luce è ferma, i pini si muovono, il cielo sembra respirare, esposto com’è ai due venti, quello reale della ripresa e quello di cui parla la poesia della Dickinson che ritorna protagonista indisturbato dei versi recitati da Matilda. I due venti rispondono al più piccolo movimento dell’aria, ogni ago dei pini si muove con sonnecchiante naturalezza alla più lieve corrente.

Può sembrare poco, ma è la scoperta di questa semplice verità che mi rende orgoglioso del mio lavoro. In essa c’è quello che sopra chiamavo poesia e qui chiamo vita. È in questa piccola verità di insegnante che giace il succo del discorso, come la scheggia di un’incantata lente di caleidoscopio.