Diciamo così: scrivere su un film di un autore che da praticamente trent’anni è fra i registi più famosi nel mondo, in grado di soddisfare occhi più e meno esigenti ma non poi così differenti gli uni dagli altri davanti a una sua pellicola no, non è facile. Almeno per quanto mi riguarda. Sì, ammetto un po’ di temerlo.
Dopo essere passato per Cannes ed affrontando un tour mondiale proprio in questi giorni, Once upon a time in… Hollywood di Quentin Tarantino riunisce in un cast ed in una storia l’America, contestualizzando la vicenda in un decennio, quello degli anni sessanta, che sta volgendo verso una fine, non sono temporale ma anche epocale.
Al vertice ma anche ad un punto di rottura sono anche i personaggi che Tarantino sceglie di portare sullo schermo, legati indissolubilmente a quella vicenda tanto nota come quella sovranizzata dalla figura di Charles Manson e le proprie vittime.
Fino a qui tutto bene. Il mio timore, nel sapere che la storia coinvolgesse il mondo del cinema, era che Tarantino non avesse più così tante idee, e che raccontare di cinema in un film fosse un diversivo in questo senso. Non è andata così: il film in Piazza Grande si è rivelato un intenso excursus nell’immaginario, nella sceneggiatura, nel grottesco e nello splatter come solo Tarantino ne è capace.
Attraverso un Leonardo di Caprio attore che deve dimostrare la pelle dura ma che interiormente non regge più il gioco, un Brad Pitt suo stuntman ed autista che deve accettare una vita in secondo piano suo malgrado e un’iconica Margot Robbie che interpreta Sharon Tate, Tarantino coglie l’occasione di reiterpretare a modo suo una storia entrata negli annali raccontandone, come vuole anche il titolo, la sua personalissima versione. C’era una volta…