Non c’è stato il film mangiatutto. Ma l’edizione di quest’anno, come è successo di recente, è stata piuttosto equilibrata. Del resto anche le Nominations erano si erano sparpagliate su più titoli. Comunque non ci son state grandissime sorprese, salvo forse l’ennesima sconfitta di Glenn Close (alla sua settima Nominations) e le troppe statuette (ben quattro) a quella cosa furbetta che è Bohemian Rhapsody. A vincere è stato Green Book, il film che sancisce una nottata all’insegna del black-power. Non tanto per il film su Spike Lee (solo una statuetta per la sceneggiatura non originale), quanto per le numerose vittorie (nelle varie sezioni) di afroamericani e, perché no, anche ai tre Oscar di Black Panther.

I momenti emozionanti? Shallow cantata da Lady Gaga e Bradley Cooper, il discorso politico di Spike Lee sugli antenati neri e sulla sua vicenda personale alla NYC, Olivia Colman che non riesce a parlare quando ritira il premio e, perché no, anche il ricordo di chi non c’è più e ci ha fatto vedere tra le personalità il nostro Bruno Ganz.

Tra le particolarità che hanno incuriosito segnaliamo il premio al miglior cortometraggio documentario, prodotto da Netflix, intitolato Period. End of Sentence, che parla di come le mestruazioni rappresentino ancora un tabù in India.

Una cerimonia senza presentatore e senza neanche tante risate. È mancato un poco di brio e di momenti topici. Neppure uno scandalo come era successo con lo scambio delle buste. Ma che ha reso onore ad alcuni film importanti. Su tutti, appunto, Green Book. Ma anche Roma, La favorita e Blakklansman. Tutti in qualche modo premiati con i riconoscimenti principali. I premi tecnici se li sono divisi Black Panther e il film sui Queen. Mentre segnalo anche che come miglior film straniero è stato eletto ancora Roma.