Villi Hermann (1941), madre ticinese e padre svizzero tedesco, studia arti figurative a Lucerna, sua città natale, a Krefeld e poi a Parigi. Tra il 1964 e il 65 espone a Lucerna e Lugano i suoi primi quadri e disegni e le sue litografie. In seguito, frequenta la London School of Filmtechnique (LSFT), dove si diploma nel 1969. Tornato in Svizzera (dapprima a Zurigo, poi in Ticino), inizia a lavorare come cineasta indipendente, collaborando parallelamente con la Televisione svizzera tedesca SRF e la RTSI per documentari e servizi culturali. Dal 1976 lavora con il Filmkollektiv di Zurigo e nel 1981 fonda la propria casa di produzione, Imago Film, a Lugano.
Nel 1974 realizza il mediometraggio Cerchiamo per subito operai, offriamo…, un’indagine sulla situazione dei lavoratori pendolari che entrano in Svizzera quotidianamente. Nel 1977 esce San Gottardo (pardo d’argento a Locarno), un docu-film dove è ancora il mondo del lavoro il tema centrale. Coi film seguenti, Matlosa (1981, in concorso alla Mostra di Venezia) e Innocenza (1986) Hermann, appoggiandosi anche alla letteratura ticinese (ambedue i film sono tratti da racconti di scrittori della Svizzera Italiana, Francesco Chiesa e Giovanni Orelli), indaga su realtà che nel passato si fanno man mano più vicine a noi, fino al suo ultimo film di finzione Bankomatt, ambientato nell’attualità del terziario. Negli ultimi anni ha continuato a girare, ma allo stesso tempo ha anche prodotto i più interessanti registi ticinesi di questi anni: come Erik Bernasconi, Francesco Rizzi, Alberto Meroni e Niccolò Castelli.
Quest’anno le 56 Giornate di Soletta gli hanno reso omaggio, scegliendolo quale protagonista de la Rencontre e dedicandogli una retrospettiva. Abbiamo colto l’occasione per intervistarlo.
Come è iniziata la sua passione per il cinema?
Ho avuto una formazione artistica in Svizzera interna, a Parigi e in Germania e volevo – come molti della mia generazione – diventare un pittore. A un certo punto mi sono accorto che il formato della tela mi costringeva dentro limiti troppo stretti. Volevo essere più libero e oltrepassare questi confini. Non dimentichiamo che siamo nel pieno della Pop-Art e quindi in mezzo ad artisti che esplorano altre strade, diverse dalla pittura su tela. In quel momento ho pensato che il cinema potesse aprire questo rettangolo, accorgendomi solo dopo di essere entrato in un altro formato rettangolare e cioè lo schermo.
Come si è sviluppata la sua idea di cinema?
Come spesso accade l’inizio è stato con un cortometraggio poiché nessuno ti dà credito per iniziare con un lungometraggio. A quel tempo, in Inghilterra, andava molto forte il documentario politico e sociale. Del resto, hanno ancora oggi una grande cultura per quel genere, e quindi mi sono dedicato a quello.
Ho seguito il percorso che parte dal cortometraggio, passa dal mediometraggio e arriva al film vero e proprio. È un’evoluzione naturale per chi inizia a far film perché il cinema impegna molte persone e molti soldi. Al contrario di chi scrive e lo fa da solo nella sua stanza, il cinema dipende dalla tecnologia e da altri professionisti che lavorano con te.