Nel futuro, in una terra di nessuno, da qualche parte c’è una coppia palestinese molto distinta e dirozzata che vive immersa in una bolla onirica. Più che sogni, tuttavia, le loro le chiamerei proiezioni liriche, versi sospesi in una enigmaticità rituale come le note della lingua araba. Parlo di Upshot, il lavoro di Maha Hai, co-produzione italiana (Okta Film), ieri alla Sala per la sezione Pardi di Domani (Concorso Corti d’autore).
Diciamo subito che è un toccante cortometraggio col respiro di un lungometraggio, il quale affronta, senza cedimenti, i temi (e il senso) della perdita e della resilienza, parola di cui mi scuso per la sua smoderata presenza in qualsiasi dibattito, ma che in questo caso si attaglia perfettamente come un cotone egiziano al suo manichino.
Mi capita spesso di nutrire astio verso il genere umano: eppure tra il rumore delle persone e il silenzio preferisco di gran lunga il primo. Ad esempio le voci in una stazione, i loro mugugni, i loro passi sui marciapiedi, lo scalpiccio e i sussurri. Anche i nostri protagonisti (impersonati da Mohammad Bakri e Areen Omari), pur essendo isolati, non risparmiano dialoghi e affettazioni tipiche del vivere in una società aperta e democratica, in cui sognare non è vietato, né tanto meno difendere e preservare i propri affetti. Senza nessuna esagerazione la coppia palestinese vive nel benessere che – in nell’angolo di mondo in cui dovrebbe esserci la Palestina – non è riservato certo ai palestinesi reali. Almeno io non ne ho mai visti di così serafici e benestanti, atteggiati a una serena imperturbabilità o a una gioviale tranquillità. Ciò detto, non vorrei che passasse troppo il messaggio del riscatto sociale di un popolo, perché no, non è questo che vuole dirci la Haj. O almeno certamente non solo questo. Il valore del film, se proprio lo vogliamo misurare, va raccolto nel non detto e nella luce degli occhi dei due coniugi. Una luce pura. Bella e imprendibile.
Del resto è la stessa regista a informarci che «Upshot è una storia che ha luogo in nessun luogo […] in una valle su cui grava una fitta bruma e non può essere individuata su nessuna mappa. Probabilmente si trova da qualche parte ai margini di un sogno. È il luogo che ho immaginato per i miei personaggi, marito e moglie sulla sessantina che hanno sofferto l’irreprimibile.»
A questo intento si intreccia una pulizia filmica di rara esattezza. Il fatto, anzi, è che l’armonia tra fotografia, parole, recitazione e sequenze narrative è così piena e circolare che non mi azzardo a raccontare nient’altro della storia; anche perché svelare la trama di questi 34 minuti di pura poesia da un lato è ingiusto verso chi legge e non ha ancora visto il film, dall’altro è impossibile: una poesia non la puoi riassumere senza banalizzarla e sommergerla di parole inutili. Cercherò quindi di essere brevissimo, provando ad accennare a qualche elemento iconico presente nel film, ad esempio la presenza degli ulivi. La loro casa è circondata da ulivi. Lui al mattino lo incontriamo chino a tagliare i polloni alla base delle radici, lei a camminare tra i filari con una tazza di tè da offrirgli. Certamente sono dei coltivatori, cioè quel genere di persone che svolgono un’attività dentro il grembo della natura. L’attività perfetta, direbbe Virgilio nelle Georgiche, per capire sia le cose universali che quelle più spicciamente umane: «Felix, qui potuit rerum cognoscere causas». La vita agreste è la sola che possa rendere gli uomini felici, poiché li mette a contatto con le cause delle cose. L’ulivo in particolare sembra insegnare ai nostri protagonisti da una parte l’arte di curare le cose a cui tengono, dall’altro quella di contentarsi di ciò che se ne ricava. È così che facciamo con gli ulivi. Spesso ci aspettiamo e raccogliamo cornucopie di frutti da loro, ma altrettanto spesso essi ci restituiscono un ricavo magro e rinsecchito. Questo è il motivo per cui non abbattiamo mai la scure sul corpo ligneo e secolare degli ulivi e li teniamo con noi. Restiamo loro affezionati come a un figlio che ci ha deluso ma che, comunque, amiamo. E la similitudine – attenzione – non è casuale.
Un altro elemento è la solitudine: i due coniugi non hanno bisogno di nient’altro che di loro stessi e dei loro riti. Solo che la loro storia è ambientata nel futuro, forse in una Palestina adesso inesistente, in una pace che è un sogno e nella realtà di un presente che ha tanto la malinconia di qualcosa che non torna. Come un risultato che non quadra. Del resto upshot in inglese questo significa: risultato.
In questo futuro idilliaco e lirico lui e lei a colazione, a pranzo e a cena si augurano reciprocamente «Buon appetito» e si accordano su chi sparecchierà la tavola. A queste piccole e fondamentali amenità si aggiungono mai aspri, né banali, dibattiti appassionati sulle scelte dei loro cinque figli. Ogni giorno si sussegue identico agli altri su un crinale drammaticamente sottile: da una parte il sogno del presente, dall’altra l’inafferrabile passato. In questa passeggia non vediamo i cinque figli di cui parlano, ma ce li immaginiamo benissimo: sembrano una vera famiglia rispettabile che cammina nelle strade di un mondo giusto e felice. L’arrivo di un giornalista, però, porta il pavimento di quell’orizzonte a scricchiolare pericolosamente; e per di più fuori piove.
Se Upshot non vince niente, avrò modo di andarmi a cercare l’ombra di un ulivo per rinfrescare le mie paturnie!