Sicuramente il tempo è il protagonista di questo particolare film elvetico che è in arrivo nelle sale della Svizzera italiana. Il tempo in tutte le sue sfaccettature e coniugato in diversi modi e su piani differenti. Il tempo è infatti parte integrante della trama, è il perno della vicenda. Ma, oltre la trama, è anche il protagonista implicito dell’esperienza filmica che lo spettatore vive quando guarda Unrueh di Cyril Schäublin, zurighese, classe 1984.

Diciamo subito che si tratta di un film storico ambientato nel XIX secolo su uno dei miti svizzeri: l’orologio. In particolare, seguiamo le vicende di un’operaia Josephine che produce il bilanciere, il cuore pulsante dell’orologio, in una fabbrica di Saint-Imier.

Siamo in un momento preciso della storia: quando le nuove tecnologie stanno trasformando i processi produttivi e anche i nuovi processi produttivi si devono adattare con conseguente riorganizzazione del tempo di lavoro e del modo di lavorare. In questa particolare situazione l’operaia, si avvicina prima ed entra in seguito in un movimento anarchico locale, alimentato dalla presenza di Pyotr (Alexei Evstratov), venuto dalla Russia come cartografo, ma in realtà convinto portatore di una nuova ideologia.

Come ha detto anche il regista l’idea parte da uno spunto autobiografico in quanto sua nonna produceva appunto il bilanciere degli orologi e molte altre donne della famiglia erano attive nelle fabbriche di orologi svizzere.

È un’opera (presentata al festival di Berlino con successo e premiata nella sezione Encounters) anomala e che all’apparenza può sembrare anche un poco respingente per il suo ritmo molto lento e l’uso di attori non professionisti che a volte è straniante. Eppure, ha anche un certo fascino nascosto e dato dalla successione di quadri fissi nei quali si svolge la storia costituita principalmente da dialoghi. Anche i protagonisti, spesso e volentieri, sono filmati in campo lungo e solo gli ingranaggi degli orologi godono di primissimi piani. Quasi a ricordarci ancora una volta il tempo che passa e l’importanza dell’industria orologiera per la Svizzera.

Come accennato, oltre alla questione temporale, abbiamo anche l’elemento politico che gioca un ruolo centrale nel film di Schäublin. E l’anarchia con le sue non regole, in qualche modo si contrappone alla precisione e al rigore che chiede la costruzione degli orologi. È un accostamento interessante che avrebbe meritato qualche sottolineatura in più e di uscire da un ermetismo a volte troppo alto e austero dell’opera. Il tutto viene immortalato da un’altra grande rivoluzione dell’epoca: la nascita della fotografia. Il terzo “incomodo” narrativo che si mette tra la politica e l’economia. Eccolo, il fattore culturale. L’arte che fissa nel tempo un momento storico, un’ideologia e un sistema produttivo in piena evoluzione. Alla fine è l’immagine che vince su tutto e tutti per questo film sul tempo che sembra fuori tempo.