Un balcon à Limoges è una dramedy affilata e intelligente, capace di raccontare come la vita possa trasformare l’impensabile in normalità e il normale in un terreno di gioco per relazioni scivolose e mortali. Un film che, dietro la sua apparente leggerezza, ci resta dentro ben oltre l’ultimo titolo di coda.

Nelle note di regia che si leggono sul programma del Festival, Jérôme Reybaud definisce il suo lavoro come «l’incontro di due donne». Una sintesi asciutta, quasi disarmante, che tuttavia coglie nel segno: un’opera in cui il bizzarro e l’assurdo smettono di essere eccezione e si trasformano in ordinarietà, routine.

Secondo lungometraggio di Reybaud dopo Jours de France (2016), il film arriva a Locarno nella sezione Cineasti del presente, tre anni dopo il mediometraggio Poitiers. Detto così, a bruciapelo, la vicenda è di quelle spiazzanti che, pur senza inseguire una morale precisa, fanno riflettere su cosa significhi davvero «aiutare qualcuno».

La narrazione prende il via da un incontro casuale: Eugénie (Anne-Lise Heimburger), assistente sanitaria di mezza età, un figlio e occhi vitrei e sfuggenti, trova una donna svenuta nella sua auto. È Gladys (Fabienne Babe), una vecchia compagna di studi, oggi senza casa, con un compagno festaiolo e libertino, Fabrice (Patrice Gallet). Eugénie, spinta da un misto di dovere morale e ambizione di salvare l’altra, la trascina in un vortice di cure, ospitalità e giudizi che però mai ci distolgono i pensieri da un dubbio di fondo: dove finisce la sua generosità e dove comincia il suo desiderio di controllo su Gladys?

Il regista ci pone davanti le due protagoniste come fossero figure di un curioso esperimento sociale. Non ci sono esplosioni drammatiche o conflitti plateali: la tensione si muove sotto traccia, alimentata da sguardi, silenzi, incomprensioni. E una voce maschile fuori campo, quella di un prof di filosofia che abita nell’appartamento di fronte al balcone di Eugénie che sembra sorvegliare (e commentare) ciò che accade. È un’eco del panopticon, un occhio invisibile che trasforma la quotidianità nella scena di un crimine. Una bella trovata che restituisce allo stesso tempo forza narrativa e leggerezza al racconto.

Campi lunghi e composizioni quasi teatrali fanno da bordone alla luce naturale in cui sono immerse le due donne, restituendoci due figure esposte nella loro schiettezza e impossibilitate a nascondersi. La fotografia di Nicolas Contant è del resto priva di artifici: i toni del paesaggio urbano e campestre si sposano con la durezza della luce diurna con la stessa onestà con cui ci vengono mostrate le incrinature emotive dei personaggi. A completare il quadro, c’è la colonna sonora vivace di Léonard Lasry, la quale introduce una nota di ironia che alleggerisce, senza svuotarlo, il dramma umano al centro del racconto.

Tornando ancora sulla storia, Eugénie e Gladys danno vita a un duello sottile, fatto di complicità e diffidenza, attrazione e distanza. Sono due donne agli antipodi, eppure inevitabilmente legate, costrette a misurarsi.

C’è un momento, in Un balcon à Limoges, in cui lo spettatore si accorge di essere caduto in trappola. Non una trappola narrativa qualunque, ma un meccanismo di precisione, un delitto perfetto che non riguarda solo la trama, bensì la percezione morale dei personaggi: il buono non è più buono e il cattivo smette di essere cattivo, in un gioco di maschere che ribalta certezze e ribalta anche lo spettatore.

La tensione si misura su una riflessione sottile: spesso crediamo di essere infelici per un motivo preciso — i cretini che affollano le cronache dei giornali o le strade della nostra città, un fallimento, una morte, un conto in rosso — ma in realtà è la stessa infelicità a inventarsi di continuo motivi plausibili, scenografie di problemi che non sono altro che maschere.

Centrale è dunque il discorso sociale. In un mondo in cui tutto sembra poter cambiare — vizi, carattere, prospettive — il film ribadisce con crudele lucidità che la marchiatura della nostra radice più intima e bestiale resta indelebile. Questa consapevolezza, che pare attraversare (colpevolmente) Gladys, ribelle fin dal primo fotogramma, alla fine la scopriamo radicata anche in Eugénie, quando si trova (costretta?) a uscire dal copione iniziale e mostrarci il suo lato oscuro e inquietante.

La svolta narrativa degli ultimi quindici minuti è il vero colpo di magia del film: un’improvvisa accelerazione che tinge la pellicola di affilata tensione. Ciononostante, l’omicidio (sì, c’è un omicidio), anche quando arriva, non è il cuore della storia ma solo la miccia. Il vero delitto perfetto è la trasformazione stessa, quel passaggio irreversibile in cui il bene e il male si scambiano di posto. Un film che gioca con lo spettatore e con le regole del genere. Un noir sociale e psicologico, in cui il colpo di scena non è «chi ha ucciso chi», ma «chi siamo diventati noi nel frattempo».