Ancora una volta i fratelli Dardenne fanno centro. Con una piccola storia di migrazione (è uno dei temi forti del festival) colpiscono il cuore degli spettatori. E anche questa volta hanno la possibilità concreta di aggiudicarsi la Palma d’oro dopo averla vinta già vinto due volte: nel 1999 per Rosetta e nel 2005 con Il figlio.
Questa è una piccola storia, si diceva, ma che è allo stesso momento molto grande e universale. Parla di un’amicizia tra due giovani migranti in Belgio: Tori, un dodicenne intelligente, sveglio e fuggito dal Benin dove credevano fosse il figlio di una strega, e Lokita, sedicenne che è dovuta crescere troppo in fretta ed è dovuta partire dal Camerun per cercare fortuna e inviare i soldi a casa alla madre e ai cinque fratelli. Ma la sua ricerca dei documenti per poter restare in Belgio è un’Odissea senza fine e che la costringe a frequentare giri malfamati e senza scrupoli.
Come sempre il realismo, di cui sono maestri di Dardenne, sottolineato nei dialoghi, nella recitazione, nei movimenti di macchina ravvicinati e nella messa in scena, avvicina la storia agli spettatori e ce la fa sentire ancora più nostra. Tanto che per un’ora e mezza in sala non si è sentita girare una mosca.
C’è anche un po’ di Italia in questa delicata e commovente pellicola. E per fortuna, non abbiamo sentito la solita Bella Ciao, ma una più originale La fiera dell’est di Branduardi. La canzone insegnata loro da una signora siciliana quando sbarcarono in Italia e che intonano al karaoke della pizzeria dove lavorano in nero in uno dei momenti più belli del film.
Come sempre, anche questa volta, un plauso va fatta alla direzione degli attori: due giovani alla loro prima esperienza su un set che recitano in modo naturale e davvero convincente: Pablo Schils e Joely Mbundu. Mettendo in scena uno dei rapporti d’amicizia più belli e puri visti a Cannes negli ultimi anni.