La retrospettiva al Festival di Locarno è un gusto acquisito, penso alle otto e quaranta della mattina mentre cammino verso il cinema Rex per assistere alla proiezione di This was a Woman, film del 1948 diretto da Tim Whelan. La retrospettiva della 78ª edizione ruota attorno al perno delle Grandi Speranze nel secondo dopoguerra britannico, ed infatti si chiama «Great Expectations: British Postwar Cinema 1945 – 1960». Un periodo corto, se si considera il successivo New Age, ma ricco di varietà stilistiche e di spunti, assicura il curatore della retrospettiva, Ehsan Khoshbakht. La retrospettiva conta una quarantina di film britannici ambientati all’epoca, che compongono il ritratto di «una nazione in cerca di identità», recita il sito.
Whelan è, tecnicamente, un regista statunitense ma che rientra «dalla finestra» nella raccolta dei film della retrospettiva di quest’anno, perché è prevalentemente al Regno Unito che si lega il suo contributo cinematografico; questo è il suo film di rientro dagli Stati Uniti alla fine della guerra. Ed è un rientro degno di nota. Whelan porta infatti sullo schermo una potente storia di potere declinata al femminile, che nel secondo dopoguerra corrispondeva ancora a un dramma ambientato nelle mura domestiche, ma ne scuoteva le fondamenta. E’ una storia incredibilmente moderna nella sua realizzazione, nell’attenzione all’ambizione (seppur psicotica) al femminile e nell’attorialità matura di Sonia Dresdel — la dispotica Sylvia Russell. Il film ruota attorno al suo sguardo magnetico e l’arco delle sue sopracciglia è lo special effect più ardito, per citare una gustosa sinossi.
All’apparenza la signora Russell è una compita madre di famiglia con un marito rispettabile (Walter Fitzgerald) e due figli ormai grandi, Fenella (Barbara White) e Terry (Emrys Jones). E’ chiaro che le sorti di tutti dipendono da lei, ma la sua sete di potere e la sua mania di controllo sono al limite del parossismo, ed infatti allunga le sue grinfie su tutti e tutto: pilota la giovanissima domestica nelle braccia del genero, scuote la fragile sicurezza della figlia martellando incessante su nervi scoperti, erode l’autostima del marito una goccia alla volta. Man mano che ci rendiamo conto dell’influenza sottile eppure dilagante della donna e coviamo progressivamente un senso di ostilità nei suoi riguardi, la pellicola ci accompagna in questa trasformazione mutando essa stessa la sua forma — gli ambienti stessi e persino gli abiti della protagonista assumono tinte cupe insieme ai risvolti noir della vicenda. Gli strali di questa matriarca folle colpiscono il marito, in particolare, a partire da quando gli recide le amate rose da serra «Elizabeth»: dalle rose all’amato (non dalla signora) cane e infine allo stesso marito il passo è breve e inesorabile. Ma a cosa tende tanta malvagità? Veniamo a scoprire che le sue mire sono orientate verso un vecchio amico e collega del marito che non si è sposato e ha perseguito una fiorente carriera. Cioè verso un uomo degno della sua stessa ambizione.
Basata su una pièce teatrale di Joan Morgan, This was a woman è forse anche una messa in discussione del patriarcato, all’indomani del secondo conflitto mondiale — periodo in cui le donne avevano assunto ruoli e responsabilità maschili e che, al rientro degli uomini dalla guerra, facevano fatica a lasciar andare. Sorpresa.
Qualunque sia stato l’intento ultimo, la storia mette sotto scacco questa Lady Macbeth mancata proprio tramite il suo stesso figlio — un figlio che proprio da lei ha ereditato la presenza di spirito e i nervi di acciaio.




