Sarà stato lo stesso tipo di auto che vediamo sul grande schermo (la Ford) ma The Mule, mi ha ricordato molto Gran Torino. C’è lo stesso ritmo, gli stessi movimenti lenti di Clint Eastwood e lo stesso sguardo cattivo. Quello insegnatoli da Sergio Leone e che ormai è diventato uno dei suoi tratti somatici più riconoscibili.
Il film, tratto da un fatto realmente accaduto, racconta la storia di Earl Stone è un ottantenne rimasto solo e al verde e costretto ad affrontare la chiusura anticipata della sua impresa. A un certo punto gli viene offerto un lavoro: trasportare delle borse attraverso da uno Stato all’altro dell’America. Earl è ignaro di aver appena accettato di diventare un corriere della droga di un cartello messicano. Con il tempo il suo carico diventa di volta in volta più importante e pesante, fino a quando entra nel mirino dell’antidroga.
Come nelle sue opere più riuscite anche in The Mule è la chiarezza della sua posizione morale a prendere corpo. I solidi valori di Clint sono riposti in Earl. Anche con i difetti di un uomo di quell’età. Da un lato, infatti, tratta i messicani da fagioli rossi, prende le lesbiche per uomini e chiama negro un viaggiatore afroamericano. D’altro lato non ha la minima esitazione quando si tratta di difendere i più deboli e ascolta, per tutto il tempo musica country. È rimasto un cow-boy Clint. Un uomo d’altri tempi.
The Mule è anche tanto altro: è la malattia e la morte della moglie, che qui è interpretata da una dolcissima Dianne Wiest e il difficile rapporto con la figlia che grazie a Alison Eastwood crea un cortocircuito interessante e volutamente spaesante tra realtà e fiction.
Ma il film è soprattutto un’ironica passeggiata nella vita. Tra la passione per il giardinaggio (proprio un cliché per un anziano) e quella per le donne (altro cliché), il protagonista viaggia spensierato e con un carico di droga, lungo le strade deserte e infinite degli Stati Uniti.