Il nuovo film di Martin Scorsese, The Irishman, è un’opera dilatata ed esagerata. Per la sua lunghezza (3 h 30 minuti), per il lasso di tempo in cui è ambientata (parte dalla Seconda Guerra Mondiale e arriva fino quasi ai giorni nostri), per il costo (140 milioni di dollari), per la scelta del cast (De Niro, Pacino e Pesci insieme non si erano mai visti), per il numero di parole dette (i vari intrighi mafiosi della New York del secolo scorso sono spiegati nei minimi dettagli e si intersecano come in un complesso puzzle) e per le sue classiche figure cinematografiche (le lunghe carrellate e i piani-sequenza) che costruiscono formalmente il film e che qui sono presenti in modo massiccio.

La pellicola del regista americano gioca tra realtà e finzione raccontando una vicenda che fa parte della storia americana recente: la sparizione del sindacalista Jimmy Hoffa (Al Pacino). E lo fa attraverso gli occhi e i ricordi di Frank Sheeran (De Niro), soprannominato The Irishman, un criminale realmente esistito e un veterano di guerra, amico del mafioso Russell Bufalino (Joe Pesci) e braccio destro di Hoffa. È attraverso gli occhi di Frank, che la sua carriera mafiosa e assassina viene ricostruita, a cominciare dalla misteriosa sparizione – nel 1975 – di Hoffa. Una vicenda, questa, che fu un vero e proprio mistero e che ossessionò a lungo la stampa americana. Irrisolta nel tempo, non ci fu mai un’inchiesta per omicidio perché il corpo del sindacalista non fu mai ritrovato, per cui nessuno venne nemmeno condannato.

Scorsese dà, della vicenda, una chiave di lettura personale, basata sul romanzo di Charles Brandt, e la fa diventare un’opera complessa e una metafora della società americana. Ne esce un mix di politica e mafia che ricorda diversi film di genere (da Il padrino di Coppola fino ad arrivare a Il traditore di Bellocchio) e soprattutto rievoca, per temi, alcune delle opere più belle di Scorsese: Goodfellas, Mean Streets e Casinò su tutte. Un obiettivo che persegue in modo diverso dai titoli appena citati: se per i precedenti film ha fatto della velocità del montaggio e del ritmo incalzante una delle caratteristiche principali, qui il tutto viene appunto dilatato. Si prende il tempo di raccontare con molte parole, ma anche con altrettanti momenti di silenzio le vicende che il protagonista ha vissuto. In questo senso The Irishman è più vicino a Kundun e a Silence, cioè a quei film dove si basa tutto sull’introspezione dei personaggi.

Ed è un caso, o forse no, che quest’ultimo film di Martin Scorsese sia una riflessione sul passato. Proprio come quella che quest’anno hanno fatto anche Pedro Almodóvar con Dolore e Gloria e Quentin Tarantino con C’era un volta… a Hollywood. Tre registi, tra i più grandi di oggi, che hanno voluto guardare indietro. Forse è un modo per capire meglio il presente. O forse hanno analizzato il passato perché il presente non lo capiscono più…