The Good Sister è un film che cattura e coinvolge profondamente, sia per la delicatezza del tema affrontato sia per l’intensa interpretazione della protagonista, che dona alla pellicola una forte carica emotiva. Presentato alla Berlinale nella sezione Panorama, segna l’esordio promettente della regista Sarah Miro Fischer, che con uno sguardo attento e sensibile racconta una storia di legami, dubbi e trasformazioni interiori.

Il film segue la vicenda di Rose, una giovane donna che condivide un rapporto speciale con il fratello maggiore, Sam. Un legame profondo, quasi simbiotico, fatto di piccoli rituali e momenti di complicità che sembrano indissolubili. Tuttavia, la loro relazione viene messa a dura prova quando Sam viene accusato di stupro e Rose si trova nella posizione scomoda e dolorosa di dover testimoniare contro di lui. Questo evento sconvolgente la costringe a mettere in discussione tutto ciò che credeva di sapere: può davvero fidarsi del fratello? È possibile che l’uomo che ha sempre idealizzato sia capace di un simile atto? E, soprattutto, cosa dice questo di lei e del loro legame?

Il film affronta in modo sottile e stratificato il tema della fiducia: quanto possiamo davvero conoscere chi ci è più vicino? Quando scopriamo un lato oscuro di qualcuno che amiamo, siamo in grado di accettarlo o preferiamo negare la realtà? Sarah Miro Fischer spiega così il cuore della sua opera: “All’improvviso, Rose vede una parte di Sam che non aveva mai conosciuto prima. Questo la costringe a riconsiderare il suo modo di guardare le persone e, soprattutto, sé stessa. Se non ci si può fidare della propria carne e del proprio sangue, di chi ci si può fidare? Una volta incrinata la fiducia, la domanda successiva è ancora più spaventosa: ‘Sono capace anch’io di fare ciò che ha fatto lui? Che cosa lo ha portato a compiere quel gesto? E se io non sono come lui, qual è la differenza tra noi?”

L’interpretazione di Marie Bloching nel ruolo di Rose è ottima: misurata, ma potente. L’attrice riesce a trasmettere tutta la confusione e il dolore della protagonista attraverso uno sguardo carico di incertezze, senza mai risultare eccessiva o artificiosa. Il suo volto, spesso perso nel vuoto, comunica più di mille parole: il tormento interiore, la lotta tra amore e razionalità, il desiderio di credere in Sam e la consapevolezza che forse non può più farlo.

Uno degli elementi più interessanti della pellicola è l’uso dei rituali familiari per raccontare il legame tra i due fratelli. In particolare, due scene assumono un valore simbolico forte: Il taglio dei capelli: Rose taglia i capelli a Sam, in un gesto che richiama l’idea del cambiamento e della rinascita. È un atto che unisce e che, allo stesso tempo, sancisce una trasformazione. La doccia finale: in una delle ultime scene, Rose aiuta il fratello a lavarsi, in un momento che può essere letto come un rito di purificazione. Si tratta di un atto carico di significati: da un lato, un’estrema dimostrazione di vicinanza; dall’altro, un tentativo di ripulire (metaforicamente e fisicamente) qualcosa che forse non potrà mai essere davvero cancellato. Questi gesti non sono solo espressioni d’affetto, ma diventano il simbolo di una relazione che oscilla tra la negazione e l’accettazione, tra la necessità di trovare una verità e il desiderio di tornare alla sicurezza di prima. Sam, più di una volta, ripete la frase: “Non sono un mostro”. Ma Rose può davvero credergli? E, soprattutto, noi spettatori possiamo farlo?

The Good Sister è un’opera intensa, che non dà risposte facili ma lascia aperti interrogativi profondi. Con una regia delicata e mai invasiva, Sarah Miro Fischer ci invita a esplorare le sfumature complesse dell’amore fraterno, della lealtà e della difficoltà di accettare la realtà quando questa ci colpisce troppo da vicino. Un film che lascia il segno, spingendo chi guarda a riflettere sulla fragilità dei rapporti umani e sulla difficoltà di distinguere il bene dal male quando ad essere coinvolti sono i nostri affetti più cari.