Stamattina provavo a molcire il mio animo con le solite frequenti abluzioni, cibi sani e spuntatine al rampante e irrequieto gelsomino in giardino. Accaldato comunque, nonostante un piccolo rinfrescante temporalino estivo che è caduto dal cielo a benedire il primo giorno del Festival, ignoravo quel che mi sarebbe successo. E quel che mi sarebbe successo ha un titolo, The Crowd, un autore (King Vidor) e un anno di produzione: 1928. Il luogo di questo cataclisma catartico è stato il Palaexpo Fevi. Ovviamente, non immaginavo di dare una svolta così decisiva alla mia giornata. Dio mio buonissimo se ho visto le stelle! Bianco e nero, con l’orchestra della Svizzera italiana al completo dal vivo (41 orchestrali) che ha suonato per tutti i 98 minuti del film: gli unici fotogrammi completamente muti sono stati quelli del Leone della Metro-Goldwyn-Mayer, il quale, senza voce, ha suscitato una serpeggiante ventata di benefica ironia in mezzo ai 2800 posti occupati dal primo all’ultimo.

La storia è semplice e chiara, eppure la complessità non ha tardato a infiltrarsi come la brezza tra le spine di un roseto. John Sims, nato il 4 luglio del 1900, che coincide con il centoventiquattresimo anniversario della Dichiarazione d’Indipendenza, perde il padre appena dodicenne e impara subito a provvedere da solo a sé stesso. Si insedia a New York sperando di sbendare la dea del successo in qualche modo, ma si scontra con una città dura e ostile, piena di un’anonima folla che non risparmia nessuno nel suo turbinoso vortice. Grazie al suo collega Bert (lavora come contabile in una grande agenzia pubblicitaria) incontra Mary, una felicità inattesa che riempie i suoi vuoti giorni vuoti seduto a un tavolo in mezzo a tanti. I due presto si sposano, viaggio di nozze alle Cascate del Niagara e due splendidi bambini, un maschietto e una femminuccia. Ahimè, però, il fato riserva loro prove molto ardue: la piccolina muore accidentalmente e subito dopo John, in balia del dolore, si licenzia. Senza fiducia nella vita, tenta finanche il suicidio. Per di più il suo feeling con Mary sembra estinto per sempre: il sorriso e la serenità latitano in casa. Eppure, tra la folla newyorkese incurante del loro dramma esistenziale, complice il piccolo John Junior, trovano il modo di riavvicinarsi e provare ad affrontare ancora la vita all’imperitura ricerca di felicità.

Nomination come miglior film e miglior regia, nonché inserito fra i film conservati nel National Film Registry presso la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, questo intramontabile lavoro di Vidor anche oggi, a 96 anni dalla sua prima uscita, non ha smesso di stupirci e insegnarci a sognare. Ho scoperto, tra le altre cose, che dopo centinaia di visioni, non avevo ancora capito cosa fosse il cinema in bianco e nero e quello muto in particolare. Improvvisamente, trovandomi di fronte alla realtà del cinema con un’orchestra, cioè in un ambiente simile a quello in cui il cinema nacque, osservandolo e posizionandomi di fronte ad esso, immaginando il «motore» e «l’azione» di Vidor mentre segue James Murray ed Eleanor Boardman (John e Mary), e infine scorgendo la storia del cinema dietro la loro storia d’amore, ho scoperto quanto fondamentale sia il bianco e nero, specialmente quando è muto. Dico il bianco e nero vero, autentico, non quello taroccato, non il colore tirato in bianco e nero, ma il vero bianco e nero. Insomma, mi sono trovato dirmi: «Ma che meraviglia il cinema!» Cioè, alla mia non più acerba età, pur essendo da sempre stato un appassionato dei film del magico trentennio ’30-’59, ho scoperto quanto siano stati fondamentali i primi passi del cinema!

C’è una sorta di trasferimento di quello che è reale in qualcosa che è assolutamente irreale nel bianco e nero. Il punto è, infatti, che il bianco e nero non esiste, grazie a Dio, in natura: se lo sono inventato Joseph Nicéphore Niépce e i primi fotografi del XIX secolo, quelli che hanno inventato la fotografia; e l’hanno inventato proprio per rendere la realtà improbabile. Per aggiungere l’irreale al reale, l’impossibile al possibile, non so se mi spiego. Il bianco e nero ci permette di capire al meglio che ogni cosa attorno a noi può diventare cinema. Non è poco, è cinema, ragazzi!

Oggi se dovessi andare a vedere un altro film del Festival a colori, mi sarebbe molto difficile, perché il colore è una sorta di rinuncia al cinema: è The Crowd di King Vidor che me lo ha detto con disarmante semplicità. Il Fevi è venuto letteralmente giù dopo l’ultima nota suonata, con gli orchestrali cristallizzati in una foto collettiva scattata da 5600 occhi (2800 per 2!) che li fissavano e altrettante mani che si spellavano applaudendo oltre ogni ragionevolezza. Mi sono detto: «Ma che ho visto oggi? Cosa è successo al Festival, qui, in un’ora 28 minuti?» Non sapevo, soprattutto, che molti capolavori da sempre considerati tali, lo sono per via del bianco e nero. Se vedessimo un film, non importa il genere, degli anni ’40, mettiamo Ladri di biciclette o Furore o Casablanca a colori temo che sarebbero un attimino più deludenti, un po’ meno seduttivi, un po’ meno qualcos’altro.

La sensazione è che il cinema in bianco e nero abbia proprio un sapore diverso. A pensarci bene, ognuno di noi, facendo zapping col telecomando in queste sere estive, o anche in inverno pieno, quando fuori tutto tace e abbiamo bisogno di cinema, quando ci imbattiamo in un film in bianco e nero, ancor più se muto, difficilmente riusciamo a non fermare la ricerca e iniziare a guardare. Sembra che oggi ci sia l’impellente urgenza di stupire a tutti i costi nel cinema. Molta della produzione di massa di oggi, in ispecie se improntata sulla nuova formula della serie in streaming, sembra che debba obbligatoriamente lavorare su immagini scioccanti e continui colpi di scena. Con questo non voglio demonizzare il nuovo perché sarebbe semplicemente da retrogradi, ma piuttosto valorizzare il piacere della scoperta che aveva davanti a sé King Vidor. È normale che nessuno sogni più di fare l’esploratore nelle acque del Pacifico, anche perché sull’atlante non ci sono più chiazze bianche. Eppure The Crowd mi ha colpito senza pietà nella testa e nel cuore. Il cinema delle origini affascina come può farlo un bambino intento a scoprire il mondo. Nel ‘28 non studiavano il marketing, ma erano intenti a scoprire, esplorare. Scoprivano il mondo, i suoi suoni, le sue parole, la lingua e le relazioni tra le cose. Ciò che mi fa paura oggi è l’isteria dello stupire a tutti i costi. È però vero che, proprio quando tutto è regolamentato, ecco che in un afoso pomeriggio locarnese risorge dal 1928  l’indecente libertà di Vidor e la meraviglia di un film muto sostenuto da un’orchestra!