Jacques Tati è un antidoto alle giornate difficili. Quando ci sembra di essere invischiati nell’impaccio, nella mancanza di leggerezza, è il momento giusto per entrare nell’universo del regista francese. I suoi film non mancano mai di stupire, perché sono imprevedibili e, insieme, immediatamente riconoscibili.

Al di là dei suoi personaggi, Tati è soprattutto un creatore di mondi. Altre figure geniali della comicità hanno dato vita a maschere grandiose – Chaplin, Buster Keaton, Laurel e Hardy – ma Tati si distingue per aver saputo evocare, fin dal suo secondo lungometraggio (Les vacances de Monsieur Hulot, del 1953) un universo peculiare e coerente.

Forse bisognerebbe parlare di “mondi”, al plurale. Perché ogni film mette in scena scenari di tipo differente, che il regista usa per evidenziare il mistero del protagonista. La sua genialità consiste proprio nel rappresentare, in maniera oggettiva, il conflitto fra l’anima e il mondo. Sebbene si definisse artigiano, Tati aveva l’inquietudine di un artista: in trentacinque anni di carriera girò solo sei lungometraggi, rifiutando parecchie proposte, correndo più volte il rischio di scontentare il pubblico e finendo perfino in bancarotta (dopo Playtime, girato nel 1967). Non volle mai cedere alla facilità, ma s’impegnò ad approfondire il nodo conflittuale della sua drammaturgia.

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