“Siamo prigionieri della nostra stessa identità, del nostro stesso passato.”
– Nadav Lapid

Yoav arriva Parigi. È giovane, israeliano ed ha una buona conoscenza del francese. Bussa alla porta di un appartamento vuoto. Entra, si spoglia, si fa una doccia. Gli rubano zaino e vestiti. Torna in doccia, sviene. Viene soccorso da due giovani francesi, un ragazzo e una ragazza, inquilini dello stesso palazzo, Emile e Caroline, veri e propri stereotipi parigini viventi. Lo aiutano, lo vestono, lo nutrono, gli regalano denaro. Lo desiderano. È un clima da ’68 francese quello che si viene a creare, figlio di Bertolucci come Bertolucci lo è stato della Nouvelle Vague – emblematici in tal senso l’appartamento vuoto e il cappotto da donna con cui Yoav viene vestito, rimandi diretti a Ultimo tango a Parigi e un rapporto ambiguo fra i tre molto vicino, anche per gioco di specchi, a The Dreamers.

Il continuo sottolinearci che il pene di Yoav è circonciso nelle frequenti inquadrature in cui è nudo non è un’ostentazione, è un costante promemoria per ricordarci la sua provenienza, la sua religione, e che, nonostante ogni sforzo possibile per cancellarne ogni traccia, qualcosa della sua discendenza, della sua natura passata, è incancellabile. Yoav è scappato, ripudia le sue origini, rifiuta la sua famiglia, non parlerà mai più in ebraico. È deciso a migliorare il suo già ottimo francese imparando nuovi sinonimi da un dizionario tascabile che porta con sé. Vuole diventare francese. Yoav è libero di trovarsi un lavoro. Trova impiego nell’ambasciata israeliana ma perde il posto. Veder diluviare su una folla di persone in coda, in attesa di entrare, è troppo per lui, per la sua utopia di liberazione. Apre i cancelli, si fa sollevare dalla folla come salvatore.
Ma non gli importa. Tanto i suoi connazionali dell’ambasciata organizzavano scontri fra bande e manifestazioni violente.

Vive come può, Yoav, mangia ogni giorno la stessa pasta col pomodoro, l’alimento da supermercato più economico possibile. Scrocca cibo in un bar, ma nessuno lo ferma: tutti sono troppo distratti dalla musica, dal ballare. Anzi, ballare lo porta al centro dell’attenzione, una sorta di attrazione in cui è libero di azzannare pagnotte intere ancor più impunemente.
La Francia borghese, o meglio quella figlia della borghesia, non ha il polso per un contrastarlo. Per un senso di colpa, “il senso di colpa di non aver mai fatto niente nella vita” esplicitato letteralmente a parole da Caroline nei confronti di Emile, lo aiuta in ogni modo: Yoav sposa Caroline e inizia il suo percorso di naturalizzazione francese. E ed è qui che inizia il suo cambiamento. O forse il suo rivelarsi per quello che è. Proprio durante una lezione per ottenere la naturalizzazione, mentre gli alunni sono chiamati a cantare La Marsigliese. Dove gli altri leggono a stento del parole della lingua a loro straniera, senza forse nemmeno comprenderne il significato, figuriamoci a intonare le parole senza stonare, Yoav conta con cognizione di causa, con passione, con trasporto.

Diventa francese, restando se stesso. O meglio cambia nazionalità portando con se la stessa natura che aveva da cittadino israeliano, la stessa natura dei suo connazionali dell’ambasciata, ora traslata al suo nuovo Io francese. Comincia a comportarsi da dispotico padrone di casa appena avute in mano le chiavi. Comincia così a sgridare Caroline, sottolineando il fatto che lei è sua moglie, urlandole contro davanti ai compagni d’orchestra. Ma quell’orchestra è composta dalla stessa pasta di cui sono fatti Caroline ed Emile. Solo uno degli orchestrali prova ad opporsi, verbalmente, a Yoav e per tutta risposta Yoav diventa violento e lo aggredisce fisicamente. Tutti abbassano la testa, nessuno si oppone. Yoav è solo contro un’orchestra intera, e nessuno si oppone. L’unica forma di resistenza passiva applicata da Caroline è l’esclusione, il chiudere a Yoav la porta di casa, una porta su cui continuerà a sbattere violentemente, cercando di sfondarla per rientrare.

L’atteggiamento di un singolo individuo, o meglio di una moltitudine di singoli individui, diventa così l’aggressivo atteggiamento comune di un’intera nazione (nello specifico quella israeliana), un atteggiamento a cui l’orchestra governativa (francese) non è in grado di opporsi con la dovuta fermezza, salvo poi chiudere porte e innalzare muri, reali o metaforici; i primi si precludono ogni forma di dialogo pacifico, i secondi amputando qualsiasi possibilità. Synonyms potrebbe essere definito “scandalo in Israele, così come anche alcuni francesi potrebbero esserne scandalizzati.” afferma Nadav Lapid nel ritirare l’Orso d’Oro alla 69ª Berlinale per questo suo film ampiamente autobiografico, di difficile lettura, dalla forma spesso rabbiosa. Forse Synonyms è un film definibile di destra. Forse Navad Lapid, con la sua scrittura fin troppo sofisticata e i suoi repentini cambi di stile, ha avuto il coraggio di provare a tradurre in Cinema un suo punto di vista, un’amara constatazione sulla mutua impossibilità al dialogo e all’integrazione. Questa non è nulla più che una possibile lettura di un oggetto, distante dal qualunquismo buonista, sicuramente interessante.

Scritto da Enrico Cehovin per Lumiereeisuoifratelli.com