So che il paragone potrebbe essere visto come una provocazione, ma lo faccio comunque. Vedere un film di Ken Loach è come andare al Mac. Sai già il gusto che avrai quando uscirai dalla sala. Quella rabbia mista a malinconia che ti resta dentro per qualche ora. E se tu cerchi di pensare ad altro è lì e non ti abbandona. Ovviamente è successo anche questa volta, con il suo ultimo lavoro ambientato a Newcastle e che è in corsa per la Palma d’oro a Cannes. Sulla Croisette è già stato premiato un paio di anni or sono, ma anche quest’anno potrebbe ricevere un riconoscimento.

Questa volta Loach ci sbatte in faccia il tema del lavoro precario. E lo fa, come sempre, con la sua solita energia. E con quel modo che ha di spingere tutte le situazioni fino alle estreme conseguenze. Non fa sconti a nessuno. Neanche agli spettatori, anzi è a loro che si rivolge con più fermezza, raccontando la storia di una famiglia che lotta, ogni giorno, per sopravvivere. Tra debiti e crisi adolescenziali. Il tutto è condito con quel pizzico di modernità subdola che invece di aiutare il lavoratore lo ostacola. Una modernità che si esplicita nel computerino che Ricky, il padre di famiglia, deve tenere sempre con sé quando fa le consegne dei pacchi. Un marchingegno che lo tiene sempre sotto controllo e segnala all’azienda il luogo in cui si trova. Un marchingegno che non gli dà neppure il tempo di pisciare.

Ecco, l’ultimo film di Loach non ti dà alternative. Devi schierarti per forza. E forse questo è anche il suo limite. Non ti lascia il beneficio del dubbio. Il sapore è proprio quello che avevi immaginato all’inizio del film. Un po’ come mangiare al Mac.