In Solomamma, presentato in concorso internazionale a Locarno, Janicke Askevold racconta la storia di Edith, una giornalista quarantenne che ha deciso di diventare madre da sola grazie a un donatore anonimo. Il punto di partenza, apparentemente semplice, diventa presto terreno fertile per un’indagine più complessa sul desiderio, sul bisogno di controllo e su quel confine incerto tra autonomia e relazione.
Il centro del film si sviluppa nel momento in cui Edith riesce a scoprire l’identità del donatore. Lo incontra fingendo un’intervista giornalistica sulla sua startup tecnologica. Quel pretesto iniziale si trasforma gradualmente in un confronto intimo e spiazzante, dove a emergere non è solo l’ambivalenza della protagonista — combattuta tra il desiderio di proteggere la propria scelta e la tentazione di includere l’altro nella vita della figlia — ma anche la vulnerabilità dell’uomo, Niels, colto di sorpresa da una paternità che pensava solo teorica.
La regia adotta uno stile sobrio ma estremamente espressivo. L’uso della macchina da presa è significativo: nelle prime scene dell’incontro, il donatore non viene mai mostrato in volto. Lo vediamo di spalle, nei piedi, nei gesti minimi, come se anche visivamente fosse ancora una presenza non accettata, quasi negata. Una presenza che si svela poco dopo, con il progressivo avvicinamento emotivo, il suo volto viene concesso allo sguardo dello spettatore. È una scelta registica sottile che rende visibile il percorso interiore della protagonista.
Lisa Loven Kongsli offre una prova intensa, fatta di sfumature e silenzi. I numerosi primi piani non sono mai invadenti: sono finestre sulle emozioni trattenute, sui dubbi, sulle domande che non trovano risposta e soprattutto sulle sue incertezze e i suoi dubbi. Il suo personaggio riesce a essere credibile anche nei momenti più contraddittori, mantenendo una coerenza emotiva che sorregge l’intero film.
Interessante anche la figura della figlia di Niels, una ragazza adolescente che aspira a diventare giornalista. La sua presenza apre ad altre possibili interpretazioni legati alla comunicazione (il giornalismo), ma anche al dualismo con Edith.
Askevold evita ogni tono didascalico o giudicante. Non c’è una tesi da dimostrare, ma una serie di domande che emergono dal confronto tra due sconosciuti cercano di capirsi. La regia accompagna con pudore e precisione, puntando più sull’empatia che sul conflitto drammatico.
Tuttavia, il film sembra scegliere deliberatamente di lasciare molte questioni in sospeso, senza mai forzare risoluzioni narrative. Se da un lato questa scelta può essere letta come rispetto per la complessità dei temi, dall’altro rischia di lasciare lo spettatore con una sensazione di incompletezza, come se mancasse un’ultima spinta drammaturgica capace di legare davvero i fili della storia. C’è una certa misura di irrisolto che potrebbe anche apparire elusiva, più che aperta.
In alcuni passaggi, inoltre, la messa in scena tende a una sobrietà che sfiora il televisivo: pochi spazi e sovente interni, dialoghi quasi sempre frontali, una fotografia pulita ma poco ambiziosa, che sembrano più funzionali alla narrazione che capaci di evocare un vero linguaggio cinematografico. È un film che privilegia il contenuto e l’emotività, ma che forse avrebbe potuto osare di più sul piano formale.
Pur con questi limiti, Solomamma resta un’opera sincera e capace di sollevare interrogativi autentici sulle trasformazioni dei legami familiari. Dove la regista accompagna lo spettatore dentro una zona grigia in cui ogni scelta, anche quella più consapevole, porta con sé qualche rimpianto e molte domande.




