Scritto da Enrico Cehovin

in collaborazione con https://lumiereeisuoifratelli.com/

Clint, tormentato dai demoni interiori. Clint che gestisce una locanda sperduta tra le montagne, in mezzo ai ghiacci. Clint che abita un paesaggio mentale, il più distante possibile dove un uomo possa andare, lontano da un’idea di comunità. Parla lingue sconosciute con abitanti sconosciuti. Prende la slitta trainata dai cani, si mette in viaggio, entra in una grotta. Il viaggio di Clint è un viaggio allucinatorio e viscerale, costellato dagli incontri con le amanti, con il padre, con se stesso, presagi mortiferi (l’incontro con l’orso), un viaggio di silenzi, fruscii, dissonanze i cui confini si amalgamano costantemente nelle incessanti dissolvenze incrociate da capogiro che forgiano uno stato di alterazione dove è la percezione sensoriale a dettare un’esperienza squilibrata e continua.

Tutto il film è viaggio, e tutto il viaggio è il film, un viaggio all’interno di se stesso ma non solo: l’anima è di chi la reclama e quella di Clint non è un’autoanalisi, non la reclama, è più una suggestione, o meglio un’esplosione di sensazioni che stimolano pensieri, riflessioni ed elucubrazioni mentali che si susseguono senza sosta.

Ma il viaggio di Clint è un viaggio non strettamente personale, che suggerisce una lettura più ampia, collettiva, condivisa. Ne è un ottimo esempio la sequenza dell’esecuzione sommaria che apre la porta non a un ricordo di Clint – che infatti, a differenza degli altri incontri, non si ferma e prosegue il suo errare a bordo della slitta – ma a quella che forse è una colpa comune, una colpa anche di qualcun altro, radicata in quel (non-)luogo. Un viaggio interiore, certo, ma allo stesso tempo un viaggio esteriore; più che una flessione della mente alla scoperta di se stessa, una dilatazione, un’espansione alla ricerca di una maggior comprensione.

Siberia sembra formare un dittico ideale con il film immediatamente precedente di Abel FerraraTommaso, presentato lo scorso anno al Festival di Cannes, con cui va ben oltre al condividere il medesimo attore protagonista, Willem Dafoe, alter-ego del regista, e che può essere letto come un ideale prosieguo. Laddove Tommaso era un’esperienza terrena, ambientata a Roma e ripresa con una ruvida fotografia digitale iperrealistica al limite – voluto! – della bruttura, una lunga sofferenza terrena espiata nel finale da una colpa e da un martirio tipico di Abel Ferrara, Siberia sembra quasi poter essere un continuo della vita di Tommaso oltre la morte o un’ultima tentazione, proprio come quella del Cristo di Martin Scorsese e con lui di Willem Dafoe. Inevitabile, in entrambi i casi, accostare a demoni e ossessioni il riferimento autobiografico del regista. Laddove Tommaso seguiva una struttura molto più rigorosa e definita, in quanto sondava, per quanto soggettivamente, i rapporti che intercorrono tra individo e nucleo familiare, in Siberia l’abbandono all’ego è totale e trova compimento nel continuo fondersi di immagini, suoni e colori che abbracciano in toto il filtro della soggettività e smarriscono completamente il senso di confine, divisione e compartimentazione.