Premessa: stamani, entrando ne L’Altra Sala, avevo con me la splendida raccolta di racconti di Andrej Longo, Undici. In particolare stavo finendo di leggere il numero 7, Sera, il quale fa un esplicito riferimento all’omonima raccolta poetica di Anna Andreevna Achmatova, a me particolarmente cara. Ai versi citati, mi dicevo, sarei dovuto ritornarci con calma. Il film in cui mi stavo accingendo a nuotare era Sehnsucht in Sangerhausen.
Dando per scontato che Sangerhausen è una cittadina di minatori dell’ex Germania dell’Est, la parola tedesca sehnsucht può essere tradotta in italiano in diversi modi, a seconda del contesto. Potrebbe ad esempio significare desiderio, oppure nostalgia, ma anche anelito, struggimento, brama. Oppure aspirazione, bramosia o ansia. Sostantivi tutti giusti, direi, in relazione al film. Eppure, immergendomi più fondo tra le musiche, le scene e i sottotitoli in inglese (Phantoms of July recita il titolo nella lingua di Shakespeare), mi sono convinto che c’è un ulteriore possibilità per chiarire il busillis: stranezze. Sì, in italiano lo tradurrei come Stranezze a Sangerhausen: restituirebbe tanto al lavoro di Julian Radlmaier, presentato qui a Locarno per il Concorso Internazionale.
A consolidare la mia idea basterebbe una sinossi ridotta al minimo di quel che accade in 90 minuti puliti, al netto dei titoli di apertura e di coda. Ci provo, ma non so se ci riuscirò in pieno.
Lotte, Ursula e Neda sono le tre protagoniste legate in una imperscrutabile linea temporale che va dai tempi di Novalis ai giorni d’oggi. La prima (al tempo era a servizio nella casa del poeta romantico tedesco), scomparendo in una grotta legendaria (la favorita niente meno che di Federico Barbarossa), sopravvive sotto forma di fantasma fino ai giorni nostri. Nella stessa grotta incontra Ursula (una sua diretta consanguinea e discendente) insieme a Neda, una youtuber iraniana che stenta a superare il senso di colpa per aver abbandonato la sua amica del cuore a Teheran. Ad aggiungere sale e bizzarria al racconto c’è il fatto che una pietra azzurra resiste al corso del tempo e passa di mano in mano, da Lotte fino a Neda, la quale la abbandona su un cassonetto in stazione in mezzo a due mozziconi di sigaretta. La ciliegina sulla torta sono i personaggi collaterali, tra cui spicca un barboncino gigante bianco, due escursionisti molesti che girano nudi per i boschi, una coppia di cavalli, una di cammelli, un gelataio che ama spolverare la statua imponente di un cono trigusto, e, ultimi ma non meno importanti, un autista cinese che provvede al mantenimento (e occultamento alle autorità teutoniche) di un nipotino scoreggione e che, col suo furgoncino blu, sogna di fare la guida turistica alternativa in questa cittadina abbandonata a sé stessa e popolata sempre più da una genie sociale destrorsa particolarmente antipatica e ostile verso gli stranieri. La denuncia sociale e la satira politica verso un mondo ostile verso gli altri fornisce del resto al film una chiave di commedia molto piacevole e frizzante. Direi che c’è tutto per parlare di stranezze, no? Il piacere del cinema sta pure in questa alchemica dimensione straniante. A tratti mi era addirittura balenata nella mente la pagina del Deserto dei Tartari, in cui «Drogo ascoltava senza interesse, intento com era a guardare dalla finestra. E allora gli parve di vedere le mura giallastre del cortile levarsi altissime verso il cielo di cristallo […] E dal nord, dal settentrione invisibile dietro le mura, Drogo sentiva premere il proprio destino». Anche l’aspetto insolito del posto in sé in effetti rientra nell’equilibrio della pellicola; mi riferisco soprattutto a un’altra stranezza che non si può ignorare, ovvero un’alta montagna a forma piramidale realizzata dalle autorità dell’ex Germania dell’Est, fatta esclusivamente dei detriti e del materiale di risulta derivato dall’attività mineraria dello scorso secolo.
Insomma, non c’è aggettivo migliore di strano per descrivere quello che avviene a Sangerhausen. Con lo scorrere dei capitoli (uno per ognuna delle tre protagoniste) si comprende che c’è tra le due epoche evocate (quella del romanticismo tedesco e quella odierna) e tra i due ambienti meno distanza di quanto sembri: in ognuno dei due tempi può aprirsi una porta che ci pone davanti alla nostra piccolezza e alla vastità dell’ignoto. Lotte, Ursula e Neda sono di casa nella piccola città di minatori ancora piena di riferimenti all’ideologia del Socialismo reale, eppure è sufficiente guardare il fotogramma della locandina – Ursula, Neda, il cinese e il suo nipotino addormentati nel furgoncino blu – per cogliere risvolti inediti di quell’angolo di Europa (a loro e di tutti noi). Il noto, il conosciuto, ci mostra la sua diversità nel momento in cui decidiamo di interrogarlo. Di parlarci.
È un film che ci fa riflettere (poeticamente) sul concetto di casa e di possesso: quello che ci appartiene o che noi crediamo ci appartenga in modo assoluto. Apre nel famigliare uno spazio ignoto (Freud l’avrebbe chiamato perturbante), che mostra come conoscere «le altre case» non sia la chiave per uscire dalle nostre solitudini, ma un modo per abitarle meglio, anche perché restano sempre molti angoli bui, a volte interi corridoi, che non abbiamo lil coraggio di esplorare. Visto sotto questo aspetto la nostalgia, il desiderio, l’ansia, la brama insiti nella parola sehnsucht sono dei perfetti dirimpettai del nascosto, del rimosso, il quale inaspettatamente riemerge e ci inquieta. Lo strano, appunto. L’origine di strano la rintracciamo nel latino extraneus, la stessa che oggi ritroviamo in estraneo. Ma mentre estraneo si accosta molto facilmente a esterno o straniero, lo strano se ne scosta significativamente, prendendo un respiro molto più intimo. È l’insolito, cioè il diverso dal consueto. Ha una cifra più rarefatta – e per questo più poetica, direbbe Leopardi.
Ecco allora che la cittadina tedesca dell’Est viene assurta a simbolo di un luogo dimesso che nasconde una importante fetta della nostra storia europea, immersa com’è nella sua dimensione di tempo sospeso e perseverante, oggi preoccupantemente attraversata da spinte razziste e xenofobe. La cameriera Lotte c’era (alla fine del XVIII secolo) e c’è anche oggi insieme alla sua discendente Ursula. Sin dalla musica di testa (interrotta bruscamente) ci sembra di essere proiettati verso qualcosa di «strano», per l’appunto, ma positivo; benefico proprio perché ignoto. Una vera e propria rivelazione. Quando rivediamo il barboncino gigante di casa Novalis nella Sangerhausen di oggi abbiamo immediata la sensazione che debba succedere qualcosa da un momento all’altro: il luogo non solo è denso di passato, ma ne intuiamo anche il futuro.
La leggerezza con cui la storia è raccontata ci facilita la comprensione di questo messaggio. Si ride spesso durante il film, e il riso è propedeutico alla trasmissione del messaggio: Bergson gli assegnava una forma di critica sociale o un modo per liberarsi da schemi di pensiero predefiniti. Il riso rappresenta la tensione umana verso l’avvenire, i desideri, le speranze e le paure; l’intuizione di un destino che altrimenti non si riuscirebbe a scorgere.
È incredibile come all’uscita dalla sala, rileggendo i versi dell’Achmatova, tutto mi sembrava più chiaro: «Al raggio di finestra prego- /diritto, magro, cereo./ Da stamattina resto zitta,/ ho il cuor – spaccato in due./ Sul lavandino mio l’ottone/ è diventato verde./ Ma gioca il raggio in modo che/ è bello da guardare./ Così innocente e disarmato/ in quel silenzio a sera,/ ma in questa vuota abitazione/ è come festa d’oro e/ è di conforto a me.»
Il cinema, dicevamo, è anche questo: «alchimia dell’incontro», dice il regista nella nota di presentazione. Ed è vero: vivano protesi nel futuro, nella speranza di quel raggio, quel minuto che verrà. Non è un caso, e qui finalmente lo possiamo dire, che la parola sehnsucht sia stata inventata proprio da Novalis, il poeta che abitava quelle terre nella stessa casa di Lotte.




