Roma di Alfonso Cuaròn è sicuramente un bel film e probabilmente ha meritato il Leone d’oro a Venezia. Filmato in un bianco e nero splendido contiene un paio di scene-madri, sul finire, davvero eccezionali. Di quelle che resteranno e che bastano ad ammortizzare il costo del biglietto.

Tuttavia, soprattutto nella prima parte, ho avuto un po’ di difficoltà a entrarci dentro. L’identificazione (uno dei concetti-base del cinema) mi correva davanti o restava indietro, ma non mi era mai vicina. Io e il film abbiamo avuto un ritmo diverso per una buona metà della sua durata. Un battito differente. Questo, credo, sia una piccola pecca.

Roma è un film autobiografico e ambientato nel quartiere di Città del Messico in cui Cuarón ha realmente vissuto. Il film è dedicato alle vicende di una famiglia medio-borghese, a cui fanno da sfondo i contrasti sociali che, negli anni ’70, hanno sconvolto il Paese. Ricordi di Storia universale e storia individuale convivono nella pellicola e noi seguiamo le vicende quotidiane di Cleo, la giovane domestica della casa. Una quotidianità che il regista riesce a rendere bene attraverso piccoli gesti come il lavaggio del pavimento e l’accudimento dei figli. Soprattutto si concentra sui dettagli, sia visivi sia sonori: costruendo attraverso di essi una complessa rete di riferimenti intertestuali che tornano nel corso del film. Segnalo anche la precisione con la quale Cuaròn filma: i movimenti di camera, che si trasformano spesso e volentieri in piani-sequenza, sono sempre precisi, giustificati e rigorosi e vengono riproposti uguali lungo tutta l’opera. Anche in questo caso dando un senso di quotidianità alle loro vita.

E poi c’è l’acqua: un elemento declinato in vari modi. L’acqua crea e distrugge, ma soprattutto pulisce i panni (stesi al sole sul tetto della casa, come in un film neorealista e va in questo senso anche la scelta di attori non professionisti, o ne La Sfida di Francesco Rosi) e con essi lo sporco della vita.