Un personaggio innocente ma disturbato, buono e al tempo stesso ipersensibile all’ambiente che lo circonda, segnato da tratti depressivi: è questo l’identikit del protagonista di Peak Everything, film canadese presentato alla Settimana della Critica. Un personaggio complesso, sfaccettato, che si rivela lentamente allo spettatore.
Adam è il proprietario di un canile. Ha un’anima gentile, ma fatica a mostrare le proprie fragilità: nasconde le sue paure esistenziali a un padre anaffettivo e si lascia sfruttare dalla sua giovane assistente, incapace di opporsi per via della sua natura mite. Per contrastare l’ansia legata alla crisi ambientale, ordina una lampada solare terapeutica. È proprio attraverso il call center del fornitore che entra in contatto con Tina, una voce femminile capace di placare tutte le sue inquietudini. Quel primo incontro, solo vocale, si trasforma poi in qualcosa di reale e inaspettato.
La regista Anne Émond definisce il film come una medicina, un modo per “salvarsi la vita” in un periodo in cui, come Adam, si sentiva sommersa dalla depressione, dall’eco-ansia, dal senso di vuoto. L’idea del film nasce proprio da un’esperienza personale: anche lei ha ordinato una lampada solare terapeutica durante un momento buio. Il numero verde per l’assistenza esisteva davvero, ma non lo ha mai chiamato. Ha preferito immaginare una voce salvifica, una connessione, una storia.
Il film alterna momenti di profondo smarrimento interiore a improvvise, disarmanti ondate di umorismo: un umorismo asciutto, nero, vagamente assurdo, che non cerca mai la battuta facile, ma emerge dalla stranezza stessa del vivere. Adam è sopraffatto dal mondo, confuso da una realtà che si mescola tra caos climatico e fragilità relazionali, e la regista costruisce intorno a lui una galleria di personaggi altrettanto disorientati, ispirati — come confessa — a persone reali del suo entourage.
Nel cast troviamo Patrick Hivon nei panni di Adam e Piper Perabo nel ruolo di Tina — volto noto per chi la ricorda in Le ragazze del Coyote Ugly o The Prestige. Con loro anche Connor Jessup, Gord Rand, Éric K. Boulianne, Gilles Renaud ed Élizabeth Mageren in ruoli secondari. La regia punta tutto sulla recitazione: ogni gesto e ogni battuta risultano inusuali, spiazzanti, mai scontati. Hivon si immerge completamente nel ruolo, con una vulnerabilità autentica che restituisce pienamente la dolcezza e la disillusione del suo personaggio.
L’ambientazione canadese, tra pianure innevate e cittadine assopite, contribuisce a rafforzare il senso di spaesamento che pervade i protagonisti. Ogni luogo è segnato dall’impronta dell’uomo: miniere a cielo aperto, tralicci, impianti industriali, a sottolineare un mondo che ha superato il punto di rottura — proprio come suggerisce il titolo del film, Peak Everything, ispirato al concetto scientifico di “picco” applicato non solo alle risorse naturali, ma anche alle emozioni, agli stimoli, alla vita.
Dal punto di vista tecnico, il film è stato girato in pellicola 35 mm, scelta che conferisce alle immagini una grana intensa, quasi nostalgica. Una texture visiva che — nelle parole della regista — “ammorbidisce la realtà, come quando si indossano occhiali da sole leggermente ambrati”. L’estetica è volutamente sporca, polverosa, segnata da una luce crepuscolare che richiama un mondo sull’orlo dell’apocalisse, ma attraversato ancora da relazioni, fragilità, e bellezza.
Peak Everything è un film fuori dal tempo e fuori dai generi: commedia romantica, film apocalittico, dramma psicologico, meditazione esistenziale. Ma soprattutto è un’opera intima e sincera che, senza offrire risposte, ci invita a sostare dentro il disagio del presente con uno sguardo umano, ironico e profondamente empatico. Perché, come dice Anne Émond, “mentre siamo in una sala a ridere e piangere insieme, almeno per un attimo, non stiamo scorrendo sui social, non stiamo comprando plastica inutile. Siamo lì. Insieme”.



