Nel 2020 scrissi un articolo che intitolai, molto eloquentemente, Nuovo cinema horror: con quel titolo volevo attirare l’attenzione su un elemento comune che faceva da fil rouge a molti dei film horror che, in quegli anni, vedevo al cinema. Tutto cominciò, qualche tempo prima, con un’intuizione che presto si sarebbe delineata in maniera più precisa. Mi ero accorto che, in molti dei titoli di testa dei film horror che vedevo al cinema, figurava una casa di produzione che, come appresi poi, si chiamava Blumhouse. Memorizzato il nome, feci la consueta ricerca online, che confermò l’intuizione. A quel punto, non mi restava che scrivere l’articolo. L’idea che avrei sviluppato era molto semplice: sotto la spinta della Blumhouse, il cinema horror aveva vissuto un periodo di intenso rinnovamento che ne aveva rilanciato la popolarità.
All’epoca la Blumhouse, fondata nel 2000 da Jason Blum, aveva già prodotto una settantina di titoli, più della metà dei quali apparteneva al genere horror: Paranormal Activity (2007), Insidious (2010), Sinister (2012), La notte del giudizio (2013), The Visit (2016), Ouija (2016), Get out (2017), Split (2017), Auguri per la tua morte (2017) e Glass (2019) erano fra i più significativi. Si trattava di film che, mi pareva, rinviavano a scelte, a punti di riferimento stilistici, e a orientamenti estetici ben precisi. Quali erano dunque, mi chiesi all’epoca, le caratteristiche del cinema targato Blumhouse? Come scrissi in quell’articolo, negli anni Jason Blum aveva puntato su nomi nuovi, facilitando l’affermarsi di nuovi talenti registici, come James Wan e Scott Derrickson. Aveva anche prodotto film con un budget relativamente modesto: sulla scia di una tendenza inaugurata da opere come The Blair Witch Project nel 1999 (che, come dirò poi, lo stesso Blum si lasciò sfuggire), alcuni fra i più noti film della Blumhouse sfruttavano infatti lo stile falso documentario (Ouija, Paranormal Activity, The Visit) capitalizzandone le potenzialità.
Foto: Paolo Tosi