L’ultimo film diretto da Marco Tullio Giordana, con Cristiana Capotondi e Valerio Binasco, in uscita al cinema il giorno della festa della donna, non convince.

È la storia di Nina che si trasferisce da Milano in un piccolo paese della Lombardia, paesino dove è cresciuta e dove trova lavoro in una meravigliosa residenza per anziani. Un mondo quasi fiabesco. Dove però si cela un segreto scomodo e torbido. Il direttore della struttura, protetto dall’omertà e dalle convenzioni, approfitta del suo ruolo per molestare le dipendenti. Nina sarà costretta a confrontarsi con le sue colleghe, italiane e straniere, per affrontare il direttore della struttura, in una battaglia legale per avere giustizia.

Mancano le emozioni, manca la profondità del tema. Un tema che è di grande importanza e di estrema attualità, ovvero quello delle molestie sul posto di lavoro. Un tema che merita senza dubbio di essere affrontato, sviscerato e raccontato al pubblico con grande forza e con convinzione. Una convinzione che, in nome di donna, manca. È un circuito interrotto quello tra lo schermo e il pubblico. Una distanza che, scena dopo scena, diventa sempre più grande fino a risultare incolmabile.

Le infinite sfumature di sentimenti, che scorrono nelle vene di una vittima di molestia, non si trovano nell’interpretazione di Cristiana Capotondi. Mancano le espressioni di autentico sgomento, quelle di dubbio che si trasformano in paura e in rabbia. Che scavano nei rapporti con gli altri e che riescono infine a trovare il coraggio di rompere uno schema prestabilito: l’omertà.

Neppure lui, il cattivo, il molestatore interpretato da Valerio Binasco, risulta credibile. Così come sono poco convincenti le colleghe straniere compiacenti o semplicemente vittime del trauma della violenza subita? Perché chi subisce violenza, spesso, è incapace di reagire e sviluppa una personalità fragile e succube all’ingiustizia. Non arriva al cuore neppure il compagno di Nina, troppo apatico (Stefano Scandaletti). Mentre la figlia disincantata del molestatore stenta a trovare un ruolo nella storia. Neppure l’esponente del sindacato Giovanna (Stefania Monaco) riesce a convincere. Tutte figure senza anima. Come sagome di cartone appese a un filo narrativo che troppo spesso manca di coerenza.

Una scrittura con evidenti difetti, che avrebbe avuto bisogno, forse, di più tempo, di una maggior introspezione e di voci pronte a raccogliere il dramma di chi subisce.