Ci sono immagini che non si possono separare dai sogni. Il volto di una madre che sfuma nella nebbia dell’infanzia, le mani che avvolgono e stringono troppo, un corpo che genera, ma anche trattiene, imprigiona, dimentica. Ci sono film che non si guardano con gli occhi, ma con la parte più antica dell’anima, là dove ancora si confondono la vita e la morte, il desiderio e l’angoscia. Questi film – e forse il cinema stesso – sono un sogno altrui che penetra i nostri, una placenta visiva in cui possiamo tornare ad abitare le domande primarie: chi ci ha fatti? E a quale prezzo?
Questa è una riflessione, non su la maternità, ma su alcune sue rappresentazioni filmiche, frammenti di uno specchio rotto che restituisce immagini alterate, dissonanti, laceranti. Insieme, cerchiamo non una risposta, ma un varco. La psicoanalisi, attraverso Jung, Freud, Kristeva, Winnicott, Irigaray, ci ha insegnato che la madre non è un soggetto semplice: è presenza e abisso, bisogno e rifiuto, senso e minaccia del senso.
La maternità come figura simbolica e psichica si declina nel cinema in infinite variazioni, spesso interconnesse. Si comincia con un’assenza che pesa come una presenza: Norma Bates, madre spettrale di Psycho (1960, Alfred Hitchcock), è l’archetipo negativo della Grande Madre. Non c’è corpo più presente di quello che è assente: Norma è voce, ombra, abito vuoto, eppure domina ogni gesto del figlio Norman. Hitchcock mette in scena l’impossibilità di separarsi. La casa dei Bates, su tre livelli, è una mappa dell’anima freudiana – e più ancora junghiana – dove il Sé resta prigioniero dell’ombra materna. Kristeva parlerebbe qui di «abisso originario»: un’identità che non si può differenziare, una madre che divora invece di lasciar nascere. Freud ci mostrerebbe un Edipo irrisolto; Jung, un fallimento del processo di individuazione.